Qui ricomincia un racconto del comune. I sensi in allerta per coglierlo. Le parole da inventare per costruirlo. Relazioni altre per goderselo. È il racconto di un tempo che si fa largo, >…
Senso comune e senso «del» comune
Le pratiche istituenti dell'aisthesis
Può il comune derivare dall’aisthesis, ovvero dalla sensibilità? Ecco una cosa che pare difficile: il comune non è forse una specie di universale che fonda una co-obbligazione (cum-munus)? Il munus può difficilmente fondarsi sui sensi esteriori, che al massimo sono capaci di sinestesia e di farci esperire l’accordo con gli oggetti attraverso sensi diversi (ad esempio il colore bianco e il suono acuto). Abbiamo effettivamente un «sentire» comune ai diversi sensi e, potremmo dire, un «senso comune» (koinè aisthesis). Eppure, quando parliamo del «senso comune», perlopiù non ci riferiamo a questa accezione aristotelica, bensì all’idea di un principio di orientamento che deriva dalla facoltà di intendere o dall’intelletto. Ma qual è il rapporto tra un tale principio di orientamento e il comune inteso come obbligazione? È possibile passare dal senso comune a un senso del comune come senso di questa co-obbligazione?
Il senso del comune è allora un senso relativo al comune. La tesi che vorrei sostenere è che se il comune può derivare dall’aisthesis, non è nella forma del senso comune, ma di un senso del comune
Bruno Latour, nel suo ultimo libro, parla della necessità di «ritrovare il mondo comune, e forse anche il senso (del) comune»1. Mettere il «del» tra parentesi dice molto più di quanto sembri: suggerisce che il senso comune è, potremmo dire, anche un senso del comune. Ma parlare di un senso del comune introduce una certa rottura di simmetria. In effetti, dal «mondo comune» al «senso comune» il passaggio è agevolato dal fatto che in entrambi i casi «comune» è un aggettivo che qualifica due sostantivi. La consonanza tra i due impieghi di questo aggettivo può lasciare intendere il «senso comune» come quel senso che aprirebbe al «mondo comune». Sarà allora ben più difficile parlare del mondo del comune. E diventerà dunque difficile stabilire il rapporto tra il mondo comune e il senso del comune: perché in quest’ultimo caso «comune» è usato come un sostantivo. E il genitivo è un genitivo oggettivo: il senso del comune è allora un senso relativo al comune. La tesi che vorrei sostenere è che se il comune può derivare dall’aisthesis, non è nella forma del senso comune, ma di un senso del comune.
Il senso comune
Sappiamo che l’espressione «senso comune» proviene dal latino sensus communis che rimanda nell’antica Roma a una postura morale e politica. Così, quando Vico e Shaftesbury valorizzano il sensus communis come senso del bene comune e dell’appropriatezza, rivendicano una tradizione umanistica proveniente dai romani. Come osserva Gadamer, questo senso è un principio di orientamento che risiede «nell’universalità concreta rappresentata dalla comunità di un gruppo, di un popolo, di una nazione o dell’insieme del genere umano»2. Questo senso si oppone allora all’universalità astratta della ragione cartesiana, che è un «buon senso» ma certamente non un «senso comune», quest’ultimo assimilato da Cartesio all’immaginazione. Ma differisce profondamente dal sentire comune di Aristotele, nella misura in cui ci mette in rapporto con la dimensione di obbligazione. Il conformarsi alle regole di una comunità data, più che una facoltà universale, è un’esigenza sociale e politica.
Il senso comune è necessariamente il senso di una comunità già data?
Possiamo allora affermare che il senso comune così inteso è un senso del comune, ovvero un senso della comunità o della società. Il senso comune è un senso della comunità, ovvero un senso della solidarietà sociale. Il comune prende qui la forma e la consistenza di una comunità specifica storicamente situata. Comunità che può allargarsi all’intero genere umano. Ma questa stessa estensione è problematica, nella misura in cui la comunità del genere umano non è una comunità specifica. Può il comune incarnarsi in una comunità storicamente determinata e allo stesso tempo identificarsi con la comunità astratta del genere umano, che non è mai data qui e ora? Il senso comune è necessariamente il senso di una comunità già data?
Più in generale, possiamo immaginare che il senso comune sia quel senso che ci apre a un comune che non è né quello di una comunità specifica di appartenenza, né quello della comunità ideale del genere umano? È il problema affrontato da Kant nella Critica del giudizio. Ciò di cui si parla nel § 40, passando dal latino sensus communis, non è dell’«intelletto comune», il quale è «comune» sono nel senso di «volgare» («ciò che si trova dovunque»), bensì del gusto come facoltà di giudizio estetico ovvero facoltà di giudizio del bello. Il senso del senso comune indicherebbe propriamente il sentimento di piacere, più precisamente il sentimento di piacere in quanto «è attribuito a ciascuno quasi come un dovere (gleichsam als Pflicht)»3. Ritroviamo la dimensione di obbligazione già intravista, con la differenza che non si tratta più di un’obbligazione morale: Kant precisa «quasi come», e non semplicemente «come». Perché non si tratta di un’esigenza morale. Ma come intendere un’esigenza di universalità che rimanda a un sentimento, per di più a un sentimento così soggettivo qual è il sentimento di piacere? E qual è la comunità alla quale rimanda questa universalità necessaria? Si tratta di una comunità empirica specifica o di una comunità ideale messa a fuoco dall’esigenza di universalità, ma impossibile da realizzare nell’esperienza?
Kant afferma che con l’espressione sensus communis dobbiamo intendere l’idea di un senso comune a tutti, dunque l’idea di una facoltà di giudizio del bello. Nel lessico di Kant un’«Idea» è una rappresentazione alla quale nessuna esperienza può corrispondere in modo adeguato. L’Idea di un senso comune non equivale dunque a una facoltà della quale ciascuno sarebbe effettivamente dotato, diversamente dall’intelletto comune che si presume sia di ognuno. Essendo solo un’Idea, il senso comune non è così tanto comune, in realtà non è comune per niente, è comune solo nella misura in cui lo si esige da tutti, non significa che tutti lo provino. Ma come pretendere universalità per un giudizio singolo, del quale sappiamo che è sprovvisto di qualunque garanzia oggettiva, proprio perché estetico? Risposta: paragonando il proprio giudizio al giudizio degli altri, «piuttosto coi loro giudizi possibili che quelli effettivi», ovvero quando «ci poniamo al posto di ciascuno di loro»4. Ma tale paragone non coincide con un sondaggio, con il suffragio o con un consenso qualunque. Per riprendere la battuta di Lyotard: «Non si elegge il bello come si elegge Miss mondo»5. In questo senso la tentazione antropologica è troppo forte: «il comune è trascendentale», dunque non è altro da ciò che rende possibile a priori la comunicazione universale di un sentimento di piacere. E per garantire questa comunicabilità un tale senso va dato per presupposto, niente di più niente di meno.
Questa esperienza della pluralità è sempre circoscritta e determinata: abbiamo sempre a che fare con questi o quegli altri, mai con altri in generale. Ed è solo riferendosi a questa esperienza che il giudizio estetico può servire da modello al giudizio politico
Ci saremmo dunque liberati di qualunque comunità formata da individui empirici? C’è da dubitarne. Possiamo dirci soddisfatti dell’Idea di una comunità di diritto puramente formale, che sarebbe indipendente da qualunque comunità di fatto? Come paragonare il proprio giudizio con i giudizi possibili degli altri, se questi altri sono indipendenti da qualunque comunità di fatto? Come mettersi al posto di «ciascuno di loro» indeterminatamente? Hannah Arendt insiste giustamente sul ruolo insostituibile dell’immaginazione: quella facoltà che consente di rendere presente ciò che è assente. Facoltà che rende presente in modo sensibile ciò che non è dato ai sensi. Come può riuscirci, se «ciascuno» degli altri rimane assolutamente indeterminato? Può rendere sensibile l’assolutamente indeterminato? Perché sia fattibile, l’esigenza di mettersi al posto di altri non può essere priva di relazione con l’esperienza umana della pluralità, anche se non può ridursi a essa. Ma quest’esperienza della pluralità, che lo si voglia o meno, è sempre circoscritta e determinata: abbiamo sempre a che fare con questi o quegli altri, mai con altri in generale. Ed è solo riferendosi a quest’esperienza che il giudizio estetico può servire da modello al giudizio politico. Il giudizio che deriva da un pensiero allargato esige infatti la presenza effettiva degli altri, vede il mondo nella prospettiva di tutti coloro che vi sono presenti. Non consiste nell’immaginare gli altri che non sono presenti, ma nell’immaginare quale potrebbe essere il giudizio degli altri che sono presenti. A essere possibili sono i giudizi degli altri, non gli altri in quanto tali. La validità di un tale giudizio è allora limitata agli altri presenti.
Così, in Arendt, il senso comune è senso del comune, nella misura in cui è un senso della comunità: non è lo stesso in ciascuno, è un senso supplementare il cui possesso è un merito perché non è dato a tutti, che ci dispone «a entrare in una comunità». Arendt non parla della comunità ideale dell’umanità intera, ma di «una» comunità, senza precisare oltre. E si colloca dal punto di vista di un individuo disposto a entrare in una comunità, e non dal punto di vista di un individuo che già appartiene a questa o quell’altra comunità specifica. Questa duplice caratteristica del senso comune rivela l’originalità di Arendt, nel suo tentativo di sfuggire al dilemma kantiano dell’empirico e del trascendentale. Il senso comune è un senso del comune che presuppone l’appartenenza all’ambito pubblico o al mondo comune, ma allo stesso tempo ci dispone a entrare in una comunità mettendoci al posto degli altri, che sono come noi membri di questo ambito. Il mondo comune non definisce una comunità particolare, piuttosto è ciò a partire da cui qualunque comunità particolare può costituirsi: è la condizione dell’azione umana. Aprendoci al mondo comune il senso comune ci dispone a entrare in una comunità.
Il principio del comune
L’evidenza di uno stesso mondo dato a tutti si presume derivi dall’evidenza di un co-sentire e di un co-interpretare. Ma questa evidenza è prodotta e preservata da un sistema di potere su scala globale. Non è forse di questa evidenza che dobbiamo appunto liberarci per agire secondo l’esigenza del comune?
Ma possiamo ridurre il senso del comune, in quanto senso di una co-obbligazione, a un senso del mondo comune? Arendt ha certamente ragione a non rinchiudere il senso del comune all’interno di una comunità di appartenenza, ma ha ragione quando vincola il senso del comune a un mondo comune già dato? L’espressione «mondo comune» lascia intendere che se i nostri sensi sono soggettivi, il mondo al quale devono applicarsi è invece «oggettivo», almeno nella misura in cui lo condividiamo con altri. Cosa significa questa idea di un mondo comune? Cosa significa per noi, oggi, quando dobbiamo agire in condizioni politiche e sociali determinate? Viviamo nell’epoca della globalizzazione neoliberista che impone l’immagine di un «mondo omogeneo» al quale dovremmo tutti adattarci. È la ragione per la quale la parola «consenso» tende a funzionare come una parola tirannica, non solo per indicare la governance espertocratica degli accordi informali tra attori statali e privati, ma più in generale, secondo la giusta osservazione di Jacques Rancière, per lasciare intendere «che percepiamo le stesse cose e diamo loro la stessa significazione»6. L’evidenza di uno stesso mondo dato a tutti si presume derivi dall’evidenza di un co-sentire e di un co-interpretare. Ma questa evidenza è attivamente prodotta e preservata da un sistema di potere su scala globale. Non è forse di questa evidenza che dobbiamo appunto liberarci per agire secondo l’esigenza del comune? Imprescindibile è capire che il comune non è dato, non è dato nella forma di una comunità di appartenenza né nella forma di un mondo comune: il comune va costruito contro la stessa evidenza di un mondo condiviso, inventando appunto nuove forme di agire capaci di produrre nuove modalità del sentire e nuove forme di interpretazione, insomma inventando nuove forme di vita. Per questo occorre tornare sulla natura del comune come co-obbligazione.
La necessità di ripensare il comune a partire dall’agire, e non più a partire dal sentire, dall’interpretazione o dal giudizio, corrisponde a quello che, insieme a Christian Laval, abbiamo chiamato «rovesciamento di metodo». Operare un tale rovesciamento significa rifiutare quel processo che consiste nell’iscrivere il comune dentro una cosa, dentro un bene o una sostanza sociale, che sarebbe data a prescindere dall’agire. Significa dunque rifiutare qualunque forma di reificazione o di essenzializzazione del comune. Ecco perché abbiamo scelta la strada del sostantivo quando parliamo del comune. Il comune è anzitutto un principio politico, quello della democrazia come co-partecipazione alle questioni pubbliche, nella forma della co-delibera e della co-decisione. Qui ritroviamo l’etimologia: cum-munus esprime contemporaneamente la co-attività e la co-obbligazione. Inteso alla luce dei movimenti di occupazione delle piazze (15M, Gezi…), questo principio significa che l’unica obbligazione politica legittima è quella che deriva dalla co-attività, e non quella che viene imposta da una piccola minoranza che parla e agisce in nome degli altri. Lo straordinario di questi movimenti delle piazze è che l’esigenza anti-oligarchica di una «democrazia reale» si è intrecciata con rivendicazioni ambientali per la preservazione dei comuni (ad esempio gli spazi urbani) contro qualunque appropriazione privata o statuale. Vediamo allora come i comuni, al plurale, si articolino al comune al singolare: i comuni sono anzitutto materia di istituzione, sono spazi istituzionali sottratti alla proprietà per essere riservati all’uso comune e non possono essere istituiti e gestiti se non attraverso la messa in pratica del principio del comune, ovvero della democrazia nella sua forma radicale. Importante è capire che un comune non è mai una «cosa», anche quando è relativo a una cosa. È il legame vivo tra una cosa, un luogo, una realtà naturale (un fiume, un bosco) o artificiale (un teatro, una piazza) e l’attività del collettivo che si fa carico di quella cosa, di quel luogo e di quella realtà. Questa attività non è esterna al comune, ne è parte integrante.
Quando affermiamo la preminenza del comune in quanto principio, facciamo attenzione a non identificare il comune con la comunità, cosa che finirebbe per essere un altro modo per ridurre il comune a una sostanza. Il solo fatto di appartenere a una comunità non fonda alcuna obbligazione etica o politica. E di certo non ignoriamo che l’istituzione di un comune può farsi solo a partire da ciò che già è istituito e che quest’ultimo ha spesso la forma di una comunità di appartenenza. Ma questo punto di partenza non è un fondamento. Partiamo da ciò che è già istituito, ma per trasformarelo radicalmente, il che implica uno scontro con la logica dell’appartenenza. In questo senso, l’esigenza del comune deriva dalla conflittualità e non dal consenso, né dalla convivialità pacificata oggi celebrata con l’espressione «vivere insieme».
L’espressione «vivere insieme» proviene da Aristotele, per il quale il comune della città politica, il koinon, non è una totalità chiusa, una comunità «statutaria» che verrà così opposta alla società «contrattuale» moderna, bensì ciò che deriva dall’attività costituente dei cittadini, Ovvero da un co-agire continuamente rilanciato. Occorre riflettere su questa espressione dell’Etica Eudemia: «vivere insieme (suzen) implica un agire comune (sunergein: letteralmente co-operare».
Il senso del comune
Il senso del comune è allora il senso del comune in quanto principio, un senso che non preesiste all’istituzione di un comune e che nasce da questa stessa istituzione come sua conseguenza
Questo «agire comune» presuppone certo un desiderio di democrazia e ovviamente un obiettivo del bene comune, ma questo desiderio e questo obiettivo non sono in quanto tali un «senso del comune». Il senso del comune è allora il senso del comune in quanto principio, un senso che non preesiste all’istituzione di un comune e che nasce da questa stessa istituzione come sua conseguenza. Qual è questo senso, che è il sentimento di co-obbligazione prodotto dall’attività istituente?
Aristotele lo chiama «amicizia» (philia). Ma non si tratta di un’amicizia qualunque, ma di quella che Aristotele chiama «politica». Certo possiamo dire che qualunque amicizia, a prescindere da quale ne sia la forma, è una comunità, nel senso in cui non c’è amicizia senza messa in comune di sentimenti, interessi o attività. Tuttavia, potremmo anche sostenere che ogni comunità è già in quanto tale un’amicizia. Il che vale soprattutto per quella comunità che è la comunità politica. Nel primo caso si tratta di un’«amicizia istituzionale» o «civica», che non è deliberata nella misura in cui non si scelgono i propri concittadini, ma che non per questo lega in maniera meno forte i concittadini di una stessa polis. È allora l’attività di messa in comune a fondare l’amicizia tra i co-partecipanti. L’amicizia specificatamente politica è dunque l’amicizia che è direttamente prodotta dall’attività politica. L’Etica Eudemia lo dice chiaramente: «l’effetto della politica è anzitutto quello di produrre un’amicizia». E questa attività politica è specificatamente un’attività di messa in comune (koinonen), cosicché il sentimento dell’amicizia è l’effetto prodotto dall’attività di messa in comune. In altri termini, il co-sentire non è ciò che precede l’agire comune, ne è l’effetto.
Ma, si obietterà, l’attività di messa in comune non è suscettibile di assumere forme diverse? In fin dei conti, c’è posto per diversi regimi politici: monarchia, aristocrazia, governo costituzionale, senza parlare delle corrispondenti forme deviate (tirannia, oligarchia, democrazia). L’amicizia è il sentimento che garantisce la coesione di questi regimi indistintamente? Aristotele, nei capitoli 12 e 13 dell’Etica Nicomachea, si interroga sulle forme dell’amicizia che corrispondono alle differenti costituzioni. Qui afferma che l’amicizia è direttamente proporzionale all’estensione della messa in comune realizzata dall’attività politica. Così, nella tirannia, dove «nulla vi è di comune tra il governante e il governato»7, non c’è più giustizia di quanto vi sia amicizia, mentre nelle democrazie è di importanza estrema: «infatti molto vi è di comune lì dove i cittadini sono uguali» 8. L’Etica Eudemia conferma il nesso tra comune e uguaglianza: l’amicizia politica è fondata sull’uguaglianza ed esige uguaglianza. In democrazia, tale uguaglianza nel prendere parte all’esercizio del potere è garantita dal principio della rotazione delle cariche, principio dell’alternanza tra governante e governato, ovvero quello che fa sì che ogni cittadino sia «a turno» governato e governante. Per questo Karl Polanyi ha in tutto per tutto ragione quando afferma che la philia è «una disposizione ad assumersi le cariche a turno e alla condivisione».
L’amicizia così intesa non fa che esprimere sul piano dell’affetto la soggettivazione collettiva determinata dall’attività istituente. Il soggetto di un comune non preesiste alla sua istituzione, è l’effetto dell’attività di messa in comune
Ma quanto afferma Aristotele vale solo per la comunità politica dei cittadini. Per noi il principio del comune, come principio della co-obbligazione fondato sulla co-partecipazione, vale per l’intero ambito del sociale e non solo per l’ambito politico in senso stretto. Dunque, a produrre questa «amicizia istituzionale» sarà qualunque forma di co-attività attraverso la quale un comune viene istituito e la democrazia sperimentata. L’amicizia così intesa non fa che esprimere sul piano dell’affetto la soggettivazione collettiva determinata dall’attività istituente. Il soggetto di un comune non preesiste alla sua istituzione, è l’effetto dell’attività di messa in comune. Non più di quanto la comunicazione estetica in Kant realizzi una comunità affettiva di fusione, la messa in comune politica realizza una fusione nella forma di un «soggetto comune». Non c’è soggetto comune che non si sostenga dell’amicizia che lega i membri di un comune. Un soggetto che non ha di fronte un oggetto, che non è il soggetto di una padronanza, bensì di una co-implicazione o di un co-impegno. Un soggetto che arriva a formarsi solo in quanto individuo chiamato da ciò di cui dovrà prendersi cura. E che si disferà non appena il sentimento di questa chiamata si allenta, si stempera o si perde.
Qual è la funzione di questo senso del comune? Riprendo qui la metafora della «pelle» e del «teatro» usata da Amador Fernandez Savater per spiegare l’esplosione dei collettivi in Spagna dopo il movimento di occupazione delle piazze nel 2011. Collettivi che, con le cooperative, i centri sociali, le assemblee di quartiere, hanno ricoperto la società spagnola di una seconda pelle estremamente sensibile, sulla quale circolano correnti di affetti e di energie al di fuori di qualunque centro. All’esatto opposto della logica della competizione elettorale tra partiti politici – intesa come una logica del teatro e della rappresentazione, che agisce una distribuzione dei ruoli tra attori e spettatori – il senso del comune non è altro che il senso che consente di incrinare la logica dominante del teatro e in ultima istanza il senso che consente di «riaprire la pelle»: di riprendere la sperimentazione del basso di nuove forme di vita. Questo senso del comune non è un senso della comunità, è ciò che impedisce al comune una volta istituito di chiudersi su se stesso in una specie di enclosure sostanziale che ne comprometterebbe l’esistenza. Il senso del comune è quell’affetto che preserva il comune dal comunitario.
Testo presentato al seminario L’Aisthesis et le commun. Reconfigurer l’espace public, Musée d’art contemporain de Montréal, 18-19 marzo 2016; in versione originale disponibile sulla rivista online «Question Marx». Traduzione dal francese di Ilaria Bussoni
Note
↩1 | B. Latour, Face à Gaïa, La Découverte, Paris 2015, p. 349. |
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↩2 | H.-G. Gadamer, Vérité et méthode, Seuil, Paris 1960, p. 37. |
↩3 | I. Kant, Critica del giudizio, trad. it. Laterza, Bari 1970, pp. 85-87. |
↩4 | Ibid. |
↩5 | J.-F. Lyotard, Sensus communis, le sujet à l’état naissant, «Les Cahiers du Collège International de Philosophie», 3(1987). |
↩6 | J. Rancière, Lo spettatore emancipato, trad. it. DeriveApprodi, Roma 2017, in corso di traduzione. |
↩7 | Aristotele, Etica Nicomachea, 1161a-b. |
↩8 | Ibid. |
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