Natura o cultura? Il conflitto dei moderni ce lo troviamo in vigna. Come dispone i nostri sensi quel bagaglio di lingue e saperi, conoscenze tecniche e identità sociali con il quale ci >…
Tensioni liquide
Il vino naturale tra moderni artigiani e appetiti onnivori
In Pensiero selvaggio, Lévi-Strauss colloca l’arte a metà strada tra conoscenza scientifica e pensiero mitico o bricolage. Se lo scienziato approda a nuove realtà (conoscenza) per mezzo di strutture, il bricoleur agisce all’inverso, parte da resti e frammenti di eventi per formulare strutture. Secondo l’antropologo francese, l’artista si colloca all’intersezione di questi due movimenti. L’emozione estetica dell’opera d’arte è il risultato della capacità di riprodurre la realtà in miniatura, di coniugare cioè ordine strutturale e ordine degli eventi. L’apprezzamento estetico che sorge nell’osservatore deriva proprio dalla scoperta, attraverso l’opera d’arte, della possibilità di questa unione tra i due ordini.
Senza entrare nella critica del pensiero strutturalista di Lévi-Strauss, si può comunque adattare la sua definizione di arte ai nostri scopi e in un gioco di metafore provare a sostituire il vignaiolo all’artista e il vino naturale all’opera d’arte. Secondo Lévi-Strauss quest’ultima, proprio perché è stata creata dalle mani dell’artista, non è riproduzione passiva della realtà, piuttosto il risultato di un esperimento attivo con essa. Pur conoscendo le proprietà fisiche dell’oggetto da riprodurre, l’artista è condizionato dalla contingenza del processo creativo, la fruizione stessa dell’opera condensata nella singolarità di un momento nel tempo.
Il vino che viene prodotto è quindi la riproduzione personale di questa realtà in miniatura. Da qui il godimento estetico del bere un bicchiere di vino naturale di qualità
Anche il vignaiolo naturale produce vino conoscendo i principi tecnici del processo di vinificazione, e allo stesso tempo però sperimenta ed è attento ad esprimere le contingenze rappresentate dall’annata e dal territorio di riferimento. Il vino che viene prodotto è quindi la riproduzione personale di questa realtà in miniatura. Da qui il godimento estetico del bere un bicchiere di vino naturale di qualità.
Tenendo a mente questa suggestione di sapore strutturalista, ci possiamo concentrare su due aspetti chiave inerenti al vino naturale e alla sua presenza nel contesto, ad esempio, di una mostra d’arte, qual è stata Sensibile comune nel gennaio 2017: il concetto di autorialità e la pratica dell’assaggio. Se il contesto di quella mostra ci ha invitato a fare a meno di autori individuali e di appartenenze disciplinari, al fine di rimpossessarci di un sensibile che ci accomuna, la cosa migliore sarebbe quindi un assaggio libero di questi vini affinché possano esprimersi con la propria lingua, non quella dei produttori-autori o quella degli esperti. D’altronde è stato spesso detto che ciò che caratterizza questi vini sia proprio la loro spiccata «personalità», il loro carattere vivo e deciso, che non passa mai in-assaggiato nelle bocche di chi li beve.
Di chi è esattamente la «personalità» di cui si sta parlando? Del vino stesso o di colui che l’ha prodotto?
Questi vini ci chiedono di liberarci da pre-giudizi, o giudizi confezionati da altri e di riscoprirli in un giusto tempo, o in un tempo per così dire più «naturale» che non corrisponde ai due minuti cronometrati imposti dalla tecnica d’assaggio formale. Soffermandosi tuttavia un po’ di più su questo aspetto caratteriale distintivo, una prospettiva antropologica non può astenersi dal notare come questo dato ponga alcune problematiche. Di chi è esattamente la «personalità» di cui si sta parlando? Del vino stesso o di colui che l’ha prodotto?
Senza entrare nello spinoso problema delle definizioni di «naturale», rimane un dato di fatto inequivocabile: questi vini vengono chiamati così perché l’enfasi viene posta sul rapporto di ascolto attento che il vignaiolo instaura con la Natura, con il suo terroir di riferimento. La Natura è il punto di partenza imprescindibile, quando si discute di pratica naturale è infatti frequente sentir dire che «il vino si fa in vigna». Come un abile ed elegante interprete, il vignaiolo di fatto si limiterebbe ad orchestrare la materia prima raccolta nel proprio vigneto. Il suo è un costante lavoro per sottrazione, il cui grado di interventismo è inversamente proporzionale alla resa espressiva del terroir di riferimento. La «personalità» di un vino naturale risiederebbe quindi in un profilo organolettico ben definito, fedele espressione di un territorio altrettanto ben definito.
Bisogna a questo punto però tenere in considerazione due aspetti importanti: l’uno di ordine pratico e l’altro di ordine discorsivo.
Innanzitutto, è opportuno ricordare che senza la mano dell’uomo avremmo solo succo d’uva fermentato destinato a diventare presto aceto. Questo carattere propriamente culturale del vino, che a buon diritto lo rende uno dei più antichi prodotti dell’umanità, deve rimanere centrale nella modalità in cui affrontiamo il secondo aspetto, quello del discorso sul vino naturale.
Se in passato la retorica del terroir si articolava attraverso la glorificazione del suolo da un punto di vista prettamente geologico, ritenuto l’elemento chiave nella produzione di vini pregiati, recentemente si è notato come l’attenzione si stia sempre più rivolgendo alla figura del vignaiolo e al suo lavoro, in particolare a colui che produce in modo «naturale» (Demossier, 2013). Non si tratta più di magnificare quei lotti di terra benedetti da una combinazione perfetta di esposizione, altitudine e composizione geologica dei suoli. O meglio, è condizione necessaria ma non sufficiente.
Rappresentati come gli ultimi custodi delle nostre terre, circondati da un’aura di nostalgica artigianalità, questi produttori stanno diventando delle celebrità del gusto, facilmente riconoscibili in un mercato di nicchia come quello del vino «naturale»
I consumatori da parte loro sembrano più affascinati dalle storie di vita personali di questi vignaioli naturali, piuttosto che dai livelli di pH dei loro terreni. Rappresentati come gli ultimi custodi delle nostre terre, circondati da un’aura di nostalgica artigianalità, questi produttori stanno diventando delle celebrità del gusto, facilmente riconoscibili in un mercato di nicchia come quello del vino «naturale». Personalità delineate come i vini che producono. I loro volti sono ormai noti a chi bazzica nelle fiere naturali che si susseguono durante l’anno sia in Italia che all’estero. Complice anche l’utilizzo sempre più frequente di media che condensano in immagini, suoni e parole queste narrazioni. La proliferazione di blog, siti internet, pagine Facebook e profili Instagram contribuisce ad arricchire di protagonismo le figure di questi produttori, e riflette il ruolo strategico della narrazione nella commercializzazione di questi prodotti.
Il loro carattere «naturale» sembra proprio fare affidamento sul fattore umano che li sottende, in maniera più determinante di quanto appaia ad un primo sguardo
Ritornando quindi alla questione dell’autorialità, appare chiaro che non si possa parlare di «personalità» in modo univoco. Sostanzializzare il profilo percettivo ed organolettico di questi vini restituisce solo una parte dell’immagine. Paradossalmente, il loro carattere «naturale» sembra proprio fare affidamento sul fattore umano che li sottende, in maniera più determinante di quanto appaia ad un primo sguardo. C’è la Natura, materializzata nei filari che si susseguono ordinatamente nelle vigne, e ci sono i vignaioli che hanno dato forma a quei filari e che interpretano il dato naturale «giocando» con volatili e riduzioni. E ci sono i loro volti e le loro storie, che legano a doppio filo questi artigiani alle loro opere liquide.
Parlando di assaggio, è interessante portare l’attenzione sull’importanza dell’aspetto discorsivo nella costruzione sociale dell’atto del bere. Non si può gustare pienamente un vino senza comunicarne l’essenza a chi condivide con noi questa esperienza sensoriale. Una necessità ontologica che assume una veste epistemologica nel momento in cui l’assaggio viene strutturato secondo una tecnica e una teoria che lo informa.
Questa conoscenza, o tecnica dell’assaggio opera selettivamente per dare risalto a certi percettori, o caratteristiche organolettiche a discapito di altre. Per conferire giudizi positivi su alcune tipologie di vini, escludendone altre. Si definisce oggettiva perché scompone analiticamente il vino in parti distinte e ricorre all’uso di punteggi numerici per avere dati quantitativi.
È una lingua la loro che non solo assaggia e comunica, ma opera delle distinzioni. Distinzioni di gusto, distinzioni attraverso il gusto
Come antropologa, considero questa conoscenza un costrutto sociale con una sua storia e una sua logica interna. È il risultato di uno specifico processo storico e sociale che opera selettivamente, costruendo e promuovendo una specifica idea di vino. Sommelier e critici, in quanto depositari di questa conoscenza, sono quindi investiti del potere di formulare giudizi definitivi la cui influenza ha riscontro nel destino commerciale di questi prodotti. È una lingua la loro che non solo assaggia e comunica, ma opera delle distinzioni. Distinzioni di gusto, distinzioni attraverso il gusto come giustamente osserva Bourdieu (1984) quando analizza il modo in cui i giudizi estetici rinforzano relazioni di potere tra classe dominante e classe subalterna. Gusti estetici che impongono dei confini e che trovano nella sensorialità del corpo il luogo della loro pratica sociale.
Se però tradizionalmente le classi sociali elevate operavano distinzioni secondo il principio di una rigida esclusione sociale (da qui il loro essere «snob»), oggi la strategia sembra essere un’altra. Si tratta sempre di distinzione ma il criterio risulta essere quello di un’apertura alle espressioni estetiche proprie delle classe inferiori. L’odierno «onnivoro» appare costantemente alla ricerca di forme culturali alternative, spesso provenienti da classi sociali emarginate (Peterson e Kern, 1996).
Se caliamo questa attitudine nell’ambito del cibo, osserviamo l’apprezzamento e l’appropriazione di tradizioni culinarie presenti in contesti rurali, «altri», esotici. Nell’odierna gerarchia mondiale di valori che assegna punteggi a diversi «locali» su scala globale (Herzfeld, 2004), l’appetito distinto non viene appagato in piatti di porcellana Ginori serviti in ristoranti esclusivi, ma in cartocci di alluminio davanti a food-truck di empanadas biologiche. Movimenti come quello di Slow Food sembrano cavalcare questa nuova tendenza onnivora, proponendosi come paladini di una identità gastronomica che predilige la ricerca del «buono, pulito e giusto» senza palesi accenti snob.
Colori cristallini e limpidi lasciano il posto a torbidità sospette, sentori floreali ridondanti vengono sopraffatti da note decise di erbe spontanee, terra e odori animali, armonie ed equilibri se la giocano con volatili e riduzioni esuberanti
Se ritorniamo al mondo del vino, ci si può domandare se anche qui si stia assistendo a una trasformazione dei criteri che presiedono i giudizi di gusto. Mentre la tecnica d’assaggio canonica continua a produrre giudizi basati su una distinzione di gusto di sapore aristocratico, i vini «naturali» propongono invece un’estetica alternativa. Colori cristallini e limpidi lasciano il posto a torbidità sospette, sentori floreali ridondanti vengono sopraffatti da note decise di erbe spontanee, terra e odori animali, armonie ed equilibri se la giocano con volatili e riduzioni esuberanti. Spogliato della sua veste edonistica e del prestigio sociale che lo accompagna, il vino viene di nuovo considerato alimento, vero e proprio «vino da tavola».
Se ora riosserviamo questa realtà con una lente antropologica, è lecito domandarsi come si articoli qui la distinzione. Se il moderno onnivoro beve come mangia, andrà alla ricerca del diverso e dell’alternativo, marcherà il suo status sociale partecipando a fiere di vini naturali, magari in location urbane soggette a processi di gentrification. Perché anche se cambia il genere di orizzonte gustativo, un processo di distinzione è sempre in atto.
Referenze bibliografiche
Bourdieu P., A social critique of the judgement of taste, Harvard University Press, Cambridge 1984.
Demossier, M., “Following Grands Crus: global markets, transnational histories and wine”, in Wine and culture: vineyard to glass, (ed.) Rachel Black e Robert C. Ulin, Bloomsbury Academic, London e New York 2013.
Herzfeld M., The Body Impolitic: Artisans and Artifice in the Global Hierarchy of Value, University of Chicago Press, Chicago 2004.
Peterson R. A. e Kern R. M., Changing highbrow taste: from snob to omnivore, «American Sociological Review», vol. 61 n. 5, 1996, pp. 900-907.
Testo sviluppato in occasione della mostra Sensibile Comune. Le opere vive, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 14-22 gennaio 2017.
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