The Straight Mind

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MP5, Dog Star, 2014

Pubblichiamo un estratto dal testo della conferenza alla Modern Language Association di New York che Monique Wittig tenne nel 1978, ora ne Il pensiero eterosessuale, da oggi in libreria, tradotto e curato da Federico Zappino, ombre corte 2019.

I discorsi che ci opprimono in quanto lesbiche, donne e omosessuali, sono quelli che assumono che il fondamento della società, di ogni società, sia l’eterosessualità. Questi discorsi parlano di noi e pretendono di dire la verità a proposito di un argomento presentato come apolitico. Come se vi fosse qualcosa di significativo in grado di sfuggire al politico, in questo momento della storia. E come se, per quanto ci riguarda, possano esistere significati politicamente insignificanti. Il discorso eterosessuale ci opprime nella misura in cui ci impedisce di parlare, a meno che non parliamo nei suoi termini. Tutto ciò che lo revoca in dubbio è presto liquidato come elementare. Il nostro rifiuto dell’interpretazione totalizzante della psicoanalisi fa dire ai suoi teorici che noi trascuriamo la dimensione simbolica. Di conseguenza, questo discorso ci depriva della possibilità di creare le nostre categorie. Ma la sua azione più feroce è l’inflessibile tirannia che esercita sui nostri corpi, e sulle nostre menti.

Quando usiamo il concetto generico di «ideologia» per designare tutti i discorsi del gruppo dominante sembra quasi che vogliamo relegare questi discorsi all’ambito delle Idee Irreali; così facendo, rischiamo di dare l’impressione di sottostimare la violenza materiale (fisica) che l’ideologia dominante direttamente esercita su coloro che opprime. Una violenza prodotta da discorsi astratti e «scientifici», non meno che da quelli mediatici. E vorrei particolarmente insistere sull’oppressione materiale degli individui esercitata dai discorsi, sottolineando i loro effetti immediati a partire dall’esempio della pornografia.

Le immagini pornografiche, i film, le foto delle riviste, i cartelloni pubblicitari sui muri delle città, formano un discorso. Questo discorso domina il nostro mondo, con i suoi segni. E a questo discorso è sotteso un concetto: il concetto è che le donne sono dominate. Gli studiosi di semiotica potranno forse interpretare il «sistema» di questo discorso, descrivendone la disposizione. Ciò che tali studiosi ravvisano in quel discorso sono meri segni la cui funzione non è quella di significare qualcosa; quei segni non hanno altra raison d’être se non quella di essere elementi di un determinato sistema, o ordine. Per noi, tuttavia, quel discorso non è separato dal reale, come lo è per gli studiosi di semiotica. Non solo questo discorso intrattiene rapporti molto stretti con la realtà sociale che è la fonte della nostra oppressione (dal punto di vista economico e politico); esso è anche reale in se stesso, poiché è uno degli aspetti dell’oppressione, e in quanto tale esercita un preciso potere su di noi. Il discorso pornografico è infatti parte integrante della violenza che viene esercitata nei nostri confronti: ci umilia, ci degrada, è un crimine contro la nostra «umanità». Come tattica di vessazione, svolge inoltre un’ulteriore funzione: quella di avvertimento. Ci intima di stare in riga, e ricorda di farlo a quelle che tendono a dimenticarlo. Mira a incutere timore. Quando manifestiamo contro la pornografia, gli esperti di semiotica ci rimproverano di solito di confondere i «discorsi» con la «realtà». Non vedono che quel discorso illustra la nostra realtà, una delle facce della realtà della nostra oppressione. Credono che confondiamo il piano dell’analisi.

Ho scelto l’esempio della pornografia perché il suo discorso è semplicemente il più sintomatico e il più dimostrativo della violenza che viene esercitata nei nostri confronti attraverso i discorsi, in tutti gli ambiti della società. Nonostante il discorso che producono sia astratto, non c’è niente di astratto nel potere esercitato, materialmente e attualmente, dalle scienze e dalle teorie, sui nostri corpi e sulle nostre menti. Questa non è che una delle forme del dominio, la sua vera espressione, direbbe Marx. Io direi piuttosto uno dei suoi esercizi. Ogni persona oppressa conosce questo potere, e deve farci i conti. Si tratta di quel potere che dice: tu non hai nessun diritto di parlare perché il tuo discorso non è fondato, né scientificamente né teoricamente. Tu confondi il piano dell’analisi. Tu confondi il discorso con la realtà. Tu dici ingenuità. Tu non capisci questa o quella teoria o scienza.

Se il discorso dei moderni sistemi teorici e delle scienze sociali esercita un potere su di noi, è perché lavora con concetti che ci toccano da vicino. Nonostante l’avvento storico dei movimenti di liberazione delle lesbiche, delle donne e dei gay abbia già sconvolto le categorie filosofiche e politiche dei discorsi delle scienze sociali, le loro categorie (così brutalmente messe in questione) continuano tuttavia a essere utilizzate senza alcuna remora dall’odierno discorso scientifico. Tali categorie funzionano come concetti primari in un conglomerato di ogni genere di discipline, teorie e idee che definisco «pensiero eterosessuale» [straight mind] (cfr. Il pensiero selvaggio di Lévi-Strauss). Tra queste categorie troviamo «la donna», «l’uomo», «il sesso», «la differenza» e tutta quella serie di concetti che recano il suo marchio, inclusi quelli come «storia», «cultura» e «reale». E sebbene negli anni più recenti sia stato dimostrato, e largamente condiviso, che non esiste qualcosa di facilmente definibile come «natura», e che tutto è «cultura», è come se all’interno di quella cultura persistesse un nucleo di natura in grado di resistere a ogni revisione, un rapporto escluso dal sociale, nell’analisi – un rapporto le cui caratteristiche sono ineluttabilmente culturali, tanto quanto naturali, e quel rapporto è il rapporto eterosessuale. Lo definisco il rapporto sociale obbligatorio tra l’«uomo» e la «donna» – mi riferisco a Ti-Grace Atkinson e alla sua analisi del coito come istituzione1 – . Con la sua ineluttabilità assurta a sapere, a principio ovvio, ad a priori dato in una scienza, il pensiero eterosessuale sviluppa con unico gesto un’interpretazione totalizzante della storia, della realtà sociale, della cultura, del linguaggio e di tutti i fenomeni soggettivi. Mi limito qui a sottolineare il carattere oppressivo che impregna il pensiero eterosessuale, nella sua tendenza a universalizzare senza alcuna mediazione la sua produzione di concetti in leggi generali che pretendono di essere vere per tutte le società, per tutte le epoche, per tutti gli individui. Così, si parla dello scambio delle donne, della differenza tra i sessi, dell’ordine simbolico, dell’Inconscio, del Desiderio, del Godimento, della Cultura, della Storia, sempre al singolare, rivestendo questi concetti di un significato assoluto, quando invece non sono nient’altro che categorie fondate sull’eterosessualità, ossia sul pensiero che produce la differenza tra i sessi come un dogma politico e filosofico.

La conseguenza di questa tensione verso l’universalità è che il pensiero eterosessuale non può concepire una cultura, o una società, in cui l’eterosessualità non ordini tutte le relazioni umane, nonché la produzione di tutti i concetti e di tutti i processi che sfuggono alla coscienza. E tali processi inconsci vengono resi vieppiù imperativi, dal punto di vista storico, in quanto pretendono di insegnarci la verità su di noi, attraverso gli attrezzi degli specialisti. La retorica attraverso cui vengono espressi (il cui carattere seduttivo non sottovaluto affatto) si sviluppa nei miti, ricorre all’enigma, procede per accumulazione di metafore. La sua funzione è di contribuire a rendere poetico il carattere coercitivo dell’imperativo «tu-sarai-eterosessuale-o-non-sarai-affatto».

Per il pensiero eterosessuale, sottrarsi all’obbligo del coito e alle istituzioni che quest’obbligo ha storicamente prodotto come necessarie per la costituzione di ogni società, è semplicemente un’impossibilità; farlo, significherebbe infatti rifiutare la possibilità di incarnare «l’altro», significherebbe rifiutare «l’ordine simbolico», significherebbe rendere impossibile la costituzione di quel significato in assenza del quale nessuno può preservare una certa coerenza interiore. Così, nonostante il lesbismo, l’omosessualità e le società che noi formiamo siano sempre esistiti, essi non possono essere pensati, o detti. Del tutto indisturbato, il pensiero eterosessuale continua ad affermare che l’incesto, e non l’omosessualità, costituisce l’interdizione principale. Anche perché, concepita nei termini del pensiero eterosessuale, l’omosessualità non è che una prosecuzione dell’eterosessualità, ma con altri mezzi2.

La società eterosessuale si fonda sulla necessità del diverso/altro [different/other], a tutti i livelli. In assenza del diverso/altro, non potrebbe infatti funzionare né economicamente, né simbolicamente, né linguisticamente, né politicamente. E per quell’intero conglomerato di scienze e di discipline che definisco «pensiero eterosessuale», la necessità del diverso/altro è di tipo ontologico. Eppure, dovremmo domandarci: chi è il diverso/altro, se non il dominato? A questo, dobbiamo aggiungere che la società eterosessuale non si limita a opprimere le lesbiche e i gay; essa opprime molti diversi/altri, opprime tutte le donne e molte categorie di uomini, tutti quelli nella posizione del dominato. Come scrivono Claude Faugeron e Philippe Robert, costruire una differenza, e poi controllarla, è un «atto di potere, in quanto è in se stesso un atto normativo. Tutti cercano di additare gli altri come diversi. Ma non tutti ci riescono. Bisogna occupare una posizione socialmente dominante per riuscirci»3.

Ad esempio, il concetto di differenza tra i sessi costituisce ontologicamente le donne come diverse/altre. Al contrario, gli uomini non sono «diversi»; i bianchi non sono «diversi»; i padroni non sono «diversi». Ma i neri e gli schiavi lo sono eccome. Il carattere ontologico della differenza tra i sessi si estende a tutti i concetti che fanno parte dello stesso conglomerato. Ma per noi non esiste qualcosa come essere-donna o essere-uomo. «Uomo» e «donna» sono concetti opposti da un punto di vista politico, e la copula che dialetticamente li unisce è, al contempo, anche quella che li abolisce4. Sarà la lotta di classe tra donne e uomini ad abolire gli uomini e le donne5. Il concetto di «differenza» non ha nulla di ontologico in sé. Si tratta semplicemente del modo in cui i padroni interpretano una situazione storica di dominio. La funzione della differenza è di mascherare a ogni livello i conflitti di interesse, inclusi quelli ideologici.

Tutto ciò, in altre parole, significa che per noi non è più possibile continuare a essere donne e uomini; e significa anche che «donne» e «uomini», intesi come classi e come categorie di pensiero e di linguaggio, devono sparire, politicamente, economicamente, ideologicamente. Se in quanto lesbiche e gay continuiamo a parlare e a concepirci come donne e come uomini, infatti, diventiamo funzionali al mantenimento dell’eterosessualità. La mia convinzione è che una trasformazione di tipo soltanto economico non sarà sufficiente a erodere la carica oppressiva di queste categorie di linguaggio. Pensiamo forse di salvare la parola schiavo? O la parola negro, o negra? Perché mai, allora, per la parola donna le cose dovrebbero andare diversamente? Ci si continuerà a definire bianchi, padroni, uomini a cuor leggero? La trasformazione dei meri rapporti economici non può bastare. Dobbiamo produrre una trasformazione politica dei concetti-chiave, ossia dei concetti che per noi sono strategici. Perché esiste un altro ordine della materialità: è quello del linguaggio. E il linguaggio viene elaborato sulla base di questi concetti strategici. Il linguaggio, inoltre, è connesso al campo politico, dove tutto ciò che lo concerne, così come tutto ciò che concerne la scienza o il pensiero, si riferisce alla persona come soggettività, e alla sua relazione con la società. È dunque chiaro che non possiamo lasciarlo al potere del pensiero eterosessuale, o al pensiero del dominio.

Se fra tutte le produzioni del pensiero eterosessuale io sfido in particolare lo strutturalismo e l’Inconscio Strutturale, è per il seguente motivo: in un momento della storia in cui il dominio dei gruppi sociali non può più pensare di presentarsi come logicamente necessario agli occhi dei dominati, i quali infatti si ribellano e revocano in dubbio tutte le differenze sulle quali si sono fondate le varie forme di dominio, ecco che sbucano un Lévi-Strauss, un Lacan, e i loro epigoni, richiamandosi a necessità che sfuggono al controllo della coscienza, e dunque sostanzialmente alla responsabilità individuale. Questi signori si richiamano a processi inconsci che richiedono come condizione necessaria per ogni società lo scambio delle donne, ad esempio. Questo è ciò che l’inconscio ci dice con tono imperativo, secondo loro, e l’ordine simbolico – senza il quale non c’è significato, non c’è linguaggio, non c’è società – dipende essenzialmente da questo. Ma cosa significa che le donne sono rese oggetto di scambio, se non che sono semplicemente dominate? Nessuna sorpresa che vi sia solo un inconscio, e che sia eterosessuale. Si tratta, tuttavia, di un inconscio che fa un po’ troppo consciamente il gioco dei padroni, per poter fare a meno dei loro concetti. Padroni che, peraltro, negano l’esistenza di ogni forma di dominio; secondo loro non c’è schiavitù delle donne, c’è semplicemente differenza. A questi signori voglio allora replicare con le parole che un contadino rumeno pronunciò nel 1848, durante un’assemblea pubblica: «Perché i signori dicono che non c’è stata la schiavitù, quando invece noi sappiamo perfettamente che il dolore che abbiamo sofferto si deve proprio alla schiavitù?». Ecco, noi lo sappiamo perfettamente. La scienza dell’oppressione deve fondarsi su questa nostra consapevolezza.

È attraverso questa scienza che dobbiamo metterci sulle tracce di ciò che del pensiero eterosessuale procede tranquillamente senza alcun bisogno di dirsi [what-goes-without-saying]. Per usare le parole di Roland Barthes, non dobbiamo più sopportare «di vedere la Natura e la Storia di volta in volta confuse»6. Dobbiamo rendere brutalmente evidente che lo strutturalismo, la psicoanalisi, e Lacan in particolare, hanno rigidamente trasformato i loro concetti in miti – la Differenza, il Desiderio, il Nome-del-Padre ecc. Hanno «iper-mitizzato» i miti, a dire il vero, e ciò è stato necessario ai fini dell’eterosessualizzazione sistematica della dimensione psichica degli individui storicamente dominati, in primis delle donne, che hanno iniziato a lottare quasi due secoli fa. Ciò è stato fatto sistematicamente, in modo armonicamente interdisciplinare, dal momento che i miti eterosessuali transitano agilmente da un sistema formale all’altro, come valori certi, tranquillamente spendibili nella psicologia, nella psicoanalisi, e in tutte le scienze sociali. Questo insieme di miti eterosessuali forma un sistema di segni che si serve di figure retoriche, e che può dunque essere politicamente studiato dall’interno della scienza della nostra oppressione. Tuttavia, quel «noi-sappiamo-perfettamente-che-il-dolore-che-abbiamo-sofferto-si-deve-proprio-alla-schiavitù» deve sempre costituire la dinamica che introduce una diacronia storica nel discorso immutabile delle eterne essenze. Questa impresa dovrebbe costituire in qualche modo una semiotica politica, benché «il dolore che abbiamo sofferto» ci consente di lavorare anche al livello del linguaggio inteso sia come «manifesto», sia come «azione», ossia come ciò che trasforma, che fa la storia.

Intanto, nei sistemi che sembravano così eterni e universali da poterne estrarre delle leggi, leggi con cui rimpinzare i computer, o comunque i meccanismi dell’Inconscio – in questi sistemi, dicevo, grazie alla nostra azione e al nostro linguaggio, stanno avvenendo degli spostamenti. Ad esempio, un modello come lo scambio delle donne consente di rileggere la storia in modo così violento e brutale che l’intero sistema, che si credeva meramente «formale», slitta in un’altra dimensione della conoscenza. E questa dimensione ci compete, sia perché vi siamo in qualche modo designate, sia perché, come ha riconosciuto addirittura Lévi-Strauss, «noi parliamo». Ebbene, ciò che diciamo, ora, è che rescindiamo il contratto eterosessuale.

 

Questo è ciò che dicono le lesbiche negli Stati Uniti, e in molti altri paesi. Se non lo dicono con le teorie, lo dicono senza dubbio attraverso le loro pratiche, le cui ripercussioni sulla cultura e sulla società eterosessuale sono ancora imprevedibili. Un antropologo direbbe forse che dobbiamo attendere cinquant’anni per vederne gli effetti. È possibile, certo, se vogliamo universalizzare il funzionamento di queste pratiche, facendone emergere le costanti. Ora come ora, tutti i concetti eterosessuali vengono via via indeboliti. «Che cos’è una donna?»: panico, allarme generale per una mobilitazione in difesa della «donna». Ma questo è un problema che non riguarda più le lesbiche, grazie al loro cambio di prospettiva. Ecco perché sarebbe scorretto dire che le lesbiche sono donne che si associano, fanno l’amore, vivono con altre donne. «Donna» è una parola che ha senso solo nei sistemi di pensiero ed economici eterosessuali. E le lesbiche non sono donne.

Note

Note
1Ti-Grace Atkinson, Amazon Odissey, Links Books, 1974, pp. 13-23.
2Nota del curatore: Traduco liberamente ciò che Wittig esprime con «thus, when thought by the straight mind, homosexuality is nothing but heterosexuality».
3Claude Faugeron, Philippe Robert, La justice et son publique. Les représentations sociales du système pénal, Masson, 1978.
4Per la sua definizione di «sesso sociale», cfr. Nicole-Claude Mathieu, Notes pour une définition sociologique des catégories de sexe, in «Epistémologie Sociologique», 11, 1971.
5Esattamente come accade per ogni altra lotta di classe, per cui le categorie in opposizione tra loro sono riconciliate dalla lotta stessa, obiettivo della quale è farle sparire.
6Roland Barthes, Miti d’oggi (1957), trad. it. di Lidia Lonzi, Einaudi, 1994.

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