Un Focus su Bert Theis, artista e attivista scomparso un anno fa, ideatore e fondatore di Isola Art Center, un centro d’arte comunitario frequentato da artisti, intellettuali e abitanti del quartiere. Per mantenerne >…
Un progetto artistico «fight specific»
Intervista a Bert Theis su Isola Art Center
Isola Art Center è un progetto nato nel 2001 da un gruppo di critici, curatori e artisti italiani e stranieri, allo scopo di collaborare con le associazioni di quartiere in difesa dello spazio pubblico e per la creazione di un centro per l’arte. Quella che segue è una conversazione fra Bert Theis, artista e cofondatore di Isola Art Center, e Vasif Kortun, tenutasi il 4 aprile 2007 nel corso di una passeggiata nel quartiere Isola, a Milano, fra via Farini e la fabbrica occupata. Il dialogo tocca la nascita dell’Art Center, le trasformazioni urbane del quartiere ed il clima politico in cui ha preso forma il progetto. Bert Theis ha partecipato alla decima Biennale di Istanbul presentando il progetto Isola Art Center.
Bert Theis: L’isolamento del quartiere Isola è all’origine del suo nome. È per questo che il quartiere è rimasto uno dei pochi, nei pressi del centro di Milano, in cui non hanno avuto luogo le trasformazioni urbane del dopoguerra. Poiché non vi sono grandi vialoni ad attraversarlo, c’è meno traffico, e il carattere misto e operaio del quartiere è rimasto immutato. È un po’ come un villaggio nella città. La qualità della vita è molto alta, si può trovare tutto ciò di cui si ha bisogno in cinque minuti – a piedi. Ed è molto ben collegato a svariate stazioni della metropolitana. L’importante è che è sempre stato un quartiere di operai ed artigiani. Era il centro dell’antifascismo a Milano. Ad esempio, la sede nascosta del partito comunista durante il fascismo era qui, nel calzaturificio. Nelle scatole di scarpe nascondevano e distribuivano materiali propagandistici.
Vasif Kortun: E com’è cambiata la situazione da quando le fabbriche hanno via via iniziato a chiudere?
BT: Il cambiamento è stato lento. Sono iniziate ad arrivare le nuove classi medie… architetti, designer. Ma ora siamo ancora a un punto in cui la gentrification non è evidente. È interessante pensare che durante il fascismo, il governo aveva tentato di costruire residenze per la classe media, qui, in modo da cambiare la natura sociale del quartiere. Un architetto molto famoso – Giuseppe Terragni – ha progettato svariati edifici in zona. Edifici modernisti. Ma non è cambiato quasi nulla. Oggi ci sono ancora molti artigiani, molti lavoratori, e alcuni nuovi arrivati come me. Sono qui da dodici anni.
VK: Dodici non è male. Sei un vero isolano.
BT: Dopo la seconda guerra mondiale il comune ha tentato di indebolire il carattere protetto dell’Isola. Dovevano realizzare grandi progetti, qui. Avevano in cantiere uno svincolo della tangenziale. Molti progetti sono stati elaborati per collegare l’autostrada al centro. Ma sono stato fermato dagli abitanti. Per cui, ad esempio, il grosso ponte accanto ai due grattacieli non porta da nessuna parte. È progettato come un’autostrada, ma persino il parroco di quartiere si era opposto. È molto raro, a Milano, che qualcosa resti al riparo dalle grandi trasformazioni urbane. Nel 2001 è stato presentato un nuovo masterplan per la zona. Quello che volevano fare era usare la strada in cui siamo ora (via Volturno), praticamente senza traffico, per creare un collegamento diretto – che tagliasse in due il quartiere – fino al centro. La situazione qui impazzirebbe. Ci sarebbero migliaia di macchine ad attraversare la zona.
VK: E come se non bastasse questa strada sarebbe impossibile da attraversare…
BT: Sì, esatto. La situazione cambierebbe drasticamente. E quel parco – l’unico di tutto il quartiere – sparirebbe, ci costruirebbero sopra.
VK: Cosa è successo la prima volta che hanno deciso di costruire da questa parte? Hai detto che gli abitanti li hanno fermati. Qual’era la base dell’organizzazione?
BT: C’erano nuovi movimenti cittadini, associazioni, architetti, partiti politici. Hanno portato la battaglia in tribunale, perché il comune non aveva rispettato gli standard urbanistici.
VK: Per cui, legalmente, stavano vincendo…
BT: Sì. E ora come ora abbiamo cinque cause in corso contro il comune. Lo abbiamo fatto insieme agli abitanti. Vendendo le nostre opere per pagare gli avvocati. Era necessario, perché è uno dei pochi modi di fermare le cose. [Arriviamo alla sede di Isola Art Center] Qui hanno già cominciato. Vogliono costruire un centro commerciale di quattordici piani. Sarà alto più o meno il doppio di quel palazzo lì. Ostruirà completamente la vista. E questo è quasi l’unico posto a Milano in cui si possa vedere qualcosa come una skyline. All’inizio il progetto era in mano a svariate imprese italiane. Ma in seguito il comune ha chiesto a un gruppo statunitense, la Hines, di progettare l’intera area in collaborazione coll’immobiliarista italiano Ligresti. Loro mettono i terreni, gli americani i soldi e gli architetti. Ci sarà un enorme grattacielo firmato da Cesar Pelli, un architetto argentino-americano, ed un altro di I. M. Pei che ha progettato la piramide del Louvre. E la situazione è in piena evoluzione, per cui non siamo ancora alla fine. Quando abbiamo iniziato a lavorare qui, nel 2001, come dicevo, con pochi curatori e artisti, abbiamo costruito una staccionata di legno lunga cento metri e dipinta di bianco, come barriera simbolica contro la strada prevista. Ovviamente una barriera simbolica non ferma nulla. Abbiamo dovuto erigere una barriera sociale e una barriera politica intorno a quel progetto. E così nel 2002 siamo entrati in questo edificio, di proprietà comunale, occupandone il piano superiore, 1500 metri quadri.
VK: Sarà un cambiamento davvero drastico, se lo abbatteranno. Perché non è solo un edificio, è un esempio per tutto ciò che deve ancora venire. E il vostro status è ancora di occupanti?
BT: Non ci consideriamo occupanti «tradizionali». Ci prendiamo cura di un edificio di proprietà pubblica… dunque di tutti. Quando ha smesso di essere usato come fabbrica, il comune ne ha affittato una parte ad artigiani ed associazioni. E uno di loro, un falegname, ha usato il piano superiore per più di 23 anni, senza pagare nulla. Legalmente, dopo vent’anni, puoi prenderne possesso, per usocapione. Lo abbiamo fatto, con lui, tre settimane fa. E ho firmato un contratto per cui me lo ha affidato per i nostri progetti artistici. Per cui ufficialmente siamo dalla parte giusta, non siamo occupanti [Theis mostra i progetti dell’edificio e quelli del comune].Vedi, a sinistra… questa era la prima idea del comune. Avrebbero distrutto tutto questo e costruito quegli edifici lì. Alla base di tutto c’è uno scambio di zone. Il posto in cui siamo ora, e i due parchi, sono di proprietà comunale. E degli immobiliaristi privati possiedono le zone dall’altra parte. Per cui per realizzare il progetto dovevano scambiare le zone. Noi abbiamo semplicemente detto «Non scambiatele». Che costruiscano ciò che vogliono sui terreni di loro proprietà. Questo è un disegno che abbiamo realizzato in base a ciò che gli abitanti del quartiere ci hanno detto di come vorrebbero che fosse questo edificio – all’interno ed all’esterno. E la cosa davvero incredibile è che nel 2003, un documento firmato da tutto il quartiere – dalle associazioni di zona, dai negozianti, dalla scuola, dal parroco – chiedeva di mantenere l’edificio e i parchi e farci un centro per l’arte contemporanea… senza sapere esattamente cosa significasse. Era basato su tutto il lavoro che abbiamo fatto per anni. Ma si rendevano conto che poteva essere una cosa buona, utile per la battaglia della comunità.
VK: Perché potenzialmente un centro per l’arte contemporanea potrebbe causare molta più gentrificazione di…
BT: Sì, è questo il vero problema! Per il nuovo progetto della Hines, in risposta alla nostra richiesta di tenere i parchi, ci hanno risposto, «Ok, vi daremo qualcosa. Togliamo metà della strada e vi lasciamo metà dell’isolato. Ma costruiremo comunque 90.000 metri cubi, e faremo così: mettendo un grattacielo al posto dell’edificio in cui ci troviamo» – più alto delle torri della stazione, qui a fianco. Il progetto era firmato da Boeri Studio, lo studio di Stefano Boeri. Per cui è come se fosse stato incaricato dagli americani di trovare una soluzione, e quando l’ha trovata ovviamente abbiamo discusso con lui di cosa funzionava nella nostra proposta di progetto; speravamo che ci sarebbe stato un compromesso. Ma quando abbiamo visto il progetto [ne mostra un’immagine] gli abitanti del quartiere hanno detto no, è impossibile, perché il parco sarà una specie di giardino privato per le nuove abitazioni. Ora c’è uno spazio aperto fra i parchi, la gente sarà tagliata fuori. Non abbiamo mai desiderato un’archiscultura così eroica, perché sarebbe stato il segnale visibile del processo di gentrificazione. Starebbe a significare: il quartiere è cambiato; ne sarebbe una specie di monumento. Insomma, è questa la situazione corrente… siamo qui. E vedi: le zone non costruite sono molto ridotte, ma tutta questa zona la cambieranno, da qui a qui. All’inizio il progetto si chiamava «Città della moda», per avere un titolo. Ma era chiaro che l’industria della moda non era interessata. Armani, Prada… ognuno ha il proprio palazzo, e non hanno nessuna intenzione di chiudersi in un «ghetto della moda». Per cui il nome cambierà, ma gli edifici restano [Raccoglie un opuscolo]. Questo è OUT, Office for Urban Transformation. È una squadra. L’ho fondata nel 2002… ci lavorano alcuni artisti ed architetti. Abbiamo un altro ufficio a Città del Messico. Lavorano sul quartiere di Santa Maria la Ribera. È un problema diverso, ma siamo in contatto, lavoriamo insieme.
VK: Perché avete deciso di avere due uffici?
BT: È capitato. L’architetto che aveva contribuito a fondarlo, e che lavorava qui con noi, è tornato in Messico ed ha aperto il suo ufficio.
VK: È davvero necessario?
BT: Sì. Anche perché credo che la cosa più interessante sia il nostro metodo di lavoro. Il fatto che non sia solo locale, ma che possa funzionare in altri contesti. Abbiamo, ad esempio, un grafico che realizza le illustrazioni che servono agli abitanti del quartiere per esprimersi. Perché le grandi aziende hanno grandi mezzi per mostrare ciò che vogliono. Abbiamo cercato di farlo anche noi. D’altro canto, qui, ci sono altri gruppi che lavorano, al di là delle nostre mostre. Uno è Love Difference, un gruppo basato a Milano ma legato alla fondazione Pistoletto; i filosofi di Millepiani; Osservatorio inOpera, e altri. Ora abbiamo al lavoro un gruppo di giovani fotografi dall’accademia di Brera. È un insieme di gruppi che usano questo spazio per le proprie attività. È un collettivo. E ora anche le associazioni di quartiere si riuniscono qui, perché non hanno altri posti. Abbiamo creato con loro il «Forum Isola». Collaboriamo al progetto per un centro d’arte di tipo nuovo, che non sarebbe dedicato solo all’arte ma anche alle attività di quartiere. Ad esempio, la settimana prossima faremo un progetto con Tomas Saraceno. Ha proposto di costruire un’enorme mongolfiera con gli abitanti del quartiere. Per cui andiamo di casa in casa a raccogliere sacchetti di plastica; li uniremo insieme e fra dieci giorni li faremo volare. E allo stesso tempo teniamo dei laboratori sulle mongolfiere per i bambini della scuola di zona.
VK: Ma per tutto questo servono fondi istituzionali. Come ci riuscite? Come fate a tenere tutto insieme?
BT: È tutto basato sull’energia. L’energia, l’entusiasmo e la solidarietà. Solo in due occasioni abbiamo ricevuto dei fondi: dalla provincia di Milano, per una mostra ed il catalogo «The People’s Choice», e dall’American Center Foundation per il nostro sito web. Credo davvero che sia possibile farcela, perché moltissime persone sentono che è il modo giusto di lavorare. Ora è un progetto istituzionale… è un progetto artistico e un progetto sociale. Adesso rischiamo di perdere questo edificio, ma credo che dopo sei anni abbiamo costruito rapporti tali da permetterci di andare avanti. Quando ce lo toglieranno, costruiremo tende all’esterno, e continueremo. È per questo che la mia idea, per Istanbul, era di costruire uno spazio con la stessa forma allungata, come questo edificio, ma più piccolo… una specie di tenda. Perché Isola Art Center può essere anche a Istanbul. Così che non sia più ancorato a un edificio fisso. È un concetto. E possiamo continuare a invitare artisti e curatori a lavorarci. Abbiamo ospitato la Emergency Biennial della Cecenia con Evelyne Jouanno, e organizzato una grossa mostra, a dicembre, con degli artisti di Canton. Hanno trovato fondi in Cina per venire qui. E quando vengono degli artisti stanno nelle nostre case, vivono nel quartiere… è davvero locale. È estremamente locale. Non è neppure Milano, è questo quartiere, l’Isola, e il resto del mondo. È la Cina, è il Messico… Per cui ci siamo chiesti, come rappresentare ciò che stiamo facendo? Come ti dicevo, ho pensato che ci sono così tante persone che lavorano al progetto, così tanti gruppi, e spesso nemmeno si incontrano. Abbiamo pensato di eseguire ritratti o fotografie del gruppo, per spiegare come lavoriamo. Al momento ci troviamo a dieci giorni dalla prossima inaugurazione, come ti dicevo, con Tomas Saraceno, che è già venuto a incontrare gli abitanti del quartiere, e che lavora con palloni ad energia solare. Anche gli architetti coreani di «Flyingcity» hanno lavorato con l’Isola. Hanno progettato nove modelli di come il quartiere potrebbe cambiare, e saranno in mostra. Il titolo è «SituazionIsola». È dovuto al fatto che i co-curatori, Maurizio Bortolotti e Marco Biraghi, erano interessati a indagare se ciò che stiamo facendo può essere definito una pratica situazionista. Anche io sono molto interessato a cosa sia ancora valido, dei concetti dei situazionisti. Sono stati usati e copiati, ma hanno fornito moltissimi input che forse ci possono ancora servire. E dopo questa mostra, Katia ne curerà una a maggio con due artisti bulgari.
Katia Anguelova: La situazione al momento è davvero difficile, perché abbiamo questo progetto ma non sappiamo se ci sarà ancora lo spazio.
VK: È così urgente?
BT: Sappiamo che ormai il comune di Milano ha firmato un contratto con gli americani per lo scambio di zone, ma sarà valido solo quando il comune riuscirà a sgomberare l’edificio. Questo significa una pressione fortissima sugli artigiani perché se ne vadano. Hanno offerto loro dei soldi per farli andar via, molti hanno accettato. C’erano poi alcune associazioni, qui, che hanno spaccato il movimento, hanno accettato un’offerta di altri spazi, spazi alternativi, e se ne sono andati la settimana scorsa. Ora abbiamo il problema che giù, alcuni spazi sono occupati da spacciatori africani. Era con questo pretesto che hanno detto di dover sgomberare l’edificio, dobbiamo buttarlo giù perché è criminale, è pericoloso. È questa la nostra situazione. Il comune, ovviamente, ne approfitta. Anche per il quartiere è molto difficile, in molti dicono no, basta così. Non riescono a immaginare che la situazione possa cambiare. Che possa essere diversa. È per questo che una delle cose a cui stiamo lavorando, al momento, è mostrare come questo posto possa essere diverso. Abbiamo immagini per mostrare un esempio di questa possibilità. Ma stiamo lavorando ad altre immagini, perché ora come ora gli abitanti vedono solo quei grattacieli luccicanti… stiamo tentando di rispondere.
Comparso originariamente sulla homepage di Platform Garanti, Istanbul, April 2007
Postscriptum 2009:
In seguito a questa conversazione, l’edificio in cui Isola Art Center sperava di esistere è stato abbattuto dal comune per agevolare la costruzione di nuovi grattacieli. Gli immobiliaristi, ed il comune in mano alla destra, sperava di mettere a tacere l’opposizione distruggendo l’edificio e recintando gli spazi verdi. Ma dieci anni di battaglie condivise per lo spazio pubblico hanno creato una comunità molto forte. Isola Art Center continua a organizzare mostre, conferenze, incontri nelle piazze e in molti altri spazi pubblici o privati nel quartiere, che ne ospita le attività per solidarietà: negozi, un’associazione culturale, un ristorante… Isola Art Center sta anche usando le saracinesche di molti negozi di quartiere come spazio espositivo, ed è in cerca di nuovi luoghi alternativi per svolgere attività collettive nel quartiere. Il risultato è un centro per l’arte senza sede specifica. Nel gennaio 2009, il tribunale ha interrotto la costruzione del centro commerciale di Ligresti per la seconda volta. Presto anche altri tribunali dovranno pronunciarsi nel merito di numerose altre cause, che virtualmente potrebbero porre fine all’intero progetto dell’area Garibaldi-Repubblica. La conclusione della battaglia è tutto fuorché decisa.
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