Industria Isola

L'incubo delle nuove classi creative

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Isola Art Centers. Some Hypotheses, serie di foto, Courtesy Federico Bianchi Contemporary Art 2008-2009.

A cavallo tra la fine del XIX secolo e il primo Novecento, l’Isola era essenzialmente un territorio mesoindustriale, alla periferia di Milano. Le terre, un tempo agricole, alle porte della città – nell’area dei cosiddetti Corpi Santi – erano state industrializzate negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento. Le grandi fabbriche, divenute nel corso del tempo sempre più estese, producevano macchine elettrotecniche e impianti per il gruppo industriale Brown Boveri; una parte di questo stabilimento, la «Stecca», fu costruita nel 1908. Nei dintorni sorgevano inoltre una fabbrica di pettini, una di sapone, un’officina più grande e molti altri piccoli impianti; infine, dietro i binari disposti per il trasporto di beni, vi era il magazzino della ferrovia, che, insieme con il naviglio, separava il quartiere dal resto della città assegnandogli così il suo nome: «Isola».

Nell’insieme, l’espansione delle fabbriche, nei primi decenni del XX secolo, portò all’emergere di una piccola cittadina autonoma all’interno della città stessa. Lo sviluppo industriale implicò una vita indubbiamente difficile per i lavoratori: il lavoro duro agli impianti, la striatura della produzione e della riproduzione basata sulla divisione dei sessi, la mancanza di assicurazione sociale, soprattutto all’inizio del cosiddetto capitalismo industriale. Tuttavia i lavoratori vissero in un ambiente sociale che, se da un lato, garantì loro una certa socialità, dall’altro ne permise lo sviluppo di modi di soggettivazione specifici.

L’industria non ebbe bisogno solo di lavoratori e lavoratrici, ma anche di aziende artigiane per il rifornimento di pezzi. Sorsero così, nei cortili degli edifici, diverse officine, molte delle quali tuttora in funzione. Isola divenne dunque un quartiere misto di lavoratori e di artigiani. Spesso le fabbriche erano circondate dalle proprietà abitative dei lavoratori, come nella zona della Lunetta, un’area a forma di mezza luna a sud dell’Isola, una disposizione che permetteva contatti sociali sia durante il tempo del lavoro sia nel tempo libero. Partiti e sindacati assicuravano un chiaro ordine in politica, e se i rapporti di sfruttamento si spingevano troppo oltre, esistevano anche forme comprovate di resistenza e di lotta, dal sabotaggio allo sciopero. Non per ultimo, la configurazione a isola del quartiere costituì una forma di riparo per comunisti, piccola criminalità comune e partigiani in fuga.

Nella seconda metà del XX secolo, diversi fattori portarono a un processo di deindustrializzazione, che si concretizzò, negli anni Settanta, nell’abbandono di ampi complessi industriali situati nelle aree interne di metropoli e di grandi città in tutt’Europa. Che cosa ne fu di queste, talvolta gigantesche, strutture architettoniche? Un fenomeno relativamente esteso fu quello dell’occupazione e riappropriazione degli spazi industriali attraverso iniziative contro-culturali le cui prospettive, dopo il Sessantotto, non erano più rivolte (solo) alla grande, politica molare. Si iniziarono piuttosto a produrre esperimenti molecolari, per i quali i vecchi impianti industriali si rivelarono luoghi ideali per sperimentare forme di vita e produzione alternative.

Le rovine industriali che, in luoghi centrali o particolarmente esposti, rischiavano di diventare oggetto di speculazioni in molte parti d’Europa, furono salvate proprio grazie alle occupazioni che ne impedirono la demolizione – e alcune di esse, più tardi, furono persino poste sotto protezione dei beni culturali. Numerosi edifici iniziarono ad essere occupati secondo un ampio spettro di usi, da quello temporaneo degli artisti a forme di occupazione socio-culturale sul lungo periodo (anticipando il movimento di occupazione radicale autonomo degli anni Ottanta). La differenza di questi vari utilizzi artistici, sociali e socio-culturali, fu rilevante anche per la sostenibilità delle occupazioni nei rispettivi quartieri. In un certo senso, l’Isola e le sue fabbriche vuote erano predestinate a una tale diversificazione di utilizzo e appropriazione: fattori determinanti furono la vicinanza al centro città, la varietà di un’infrastruttura architettonica post-industriale, ma soprattutto una struttura sociale integra e mista.

Nella composizione delle figure sociali coinvolte nella riappropriazione dell’«industria Isola», una parte considerevole era costituita da artisti. Nonostante ciò, stranamente, proprio gli artisti, che avrebbero dovuto avere una certa esperienza nella «contestualizzazione sociale», anche sulla base delle pratiche di critica istituzionale degli anni Settanta e della Context Art degli anni Ottanta, furono in gran parte latitanti dal coinvolgimento in pratiche attiviste trasversali. Persino l’artista americano Gordon Matta-Clark, conosciuto per i suoi lavori anarchittetonici e site-specific, aveva usato nel 1973 la Brown Boveri, chiusa definitivamente nel 1965, per il primo cutting (come ha chiamato i suoi tagli nelle pareti di edifici) dal titolo Infraform. Solo due anni più tardi, Matta-Clark prenderà una chiara decisione nei confronti di una pratica artistica politicamente connotata, dopo un incontro con alcuni degli esponenti di Lotta Continua in un’altra fabbrica occupata a Milano-Sesto San Giovanni.

Al contrario, nei racconti delle pratiche artistiche che fecero della Brown Boveri il loro luogo designato fra l’autunno del 1984 e la primavera del 1985, emerge un pullulare di romanticizzazioni sull’architettura industriale. La prospettiva degli artisti rimaneva ferma alle travolgenti dimensioni spaziali degli edifici; fu soprattutto la qualità estetica delle rovine che li indusse a eseguire le loro opere in uno spazio che era di produzione industriale. Senza voler denunciare i singoli protagonisti, il punto qui in questione è piuttosto la presa di distanza e la critica dei discorsi a quel tempo dominanti, che trovavano la funzione artistica delle rovine industriali principalmente nel loro riutilizzo come scenari spettacolari di installazioni e altri lavori d’arte.

Questa funzione dell’estetica post-industriale e dello spazio interno ed esterno delle fabbriche implica alcuni aspetti parziali tra cui, in primis, un’idealizzazione della vittoria tardiva della natura sulla civiltà industriale. Lo spirito agrario dei Corpi Santi ritornava, per così dire, a celebrare la sua risurrezione post-industriale. Gatti e ratti, che popolano gli atri della fabbrica, sterpaglia ed erbaccia che proliferano sugli impianti tecnici, sono tutte metafore familiari per descrivere il rovescio del presunto dominio della tecnologia sulla natura. In queste metafore risiede un recupero spettrale dell’umanismo di matrice luddista proprio del XIX secolo, e una ripresa della falsa dicotomia fra tecnologia e natura, uomo e macchina. Certo, mentre il luddismo del XIX secolo, nonostante la sua ideologia umanistica ridotta, aveva sempre di mira lo sfruttamento capitalistico, la prospettiva estetico-architettonica degli artisti della Brown Boveri, nel tardo XX secolo, non era rivolta a tali questioni sociali. Per gli artisti, le rovine della fabbrica erano non soltanto il simbolo di un anacronistico «ritorno alla natura», ma anche, nella loro monumentalità, un possibile sostituto alla chiesa. Non a caso, chiamarono i grandi atri della Brown Boveri la «cattedrale», accanto a cui vi erano lavori che rimandavano alle caratteristiche dell’«altare» e della «sacrestia». Infine, come momento culminante di questa sacralizzazione, una sorta di romanticismo risulta evidente nel desiderio di animare l’architettura industriale «un’ultima volta» prima della sua spettacolare demolizione.

I centri socio-culturali degli anni Settanta si posero in netto contrasto rispetto al romanticismo della rovina e alla celebrazione della sua imminente demolizione. Il loro interesse si focalizzava meno sulla paventata fine dell’architettura pseudo-sacrale e più funzionalmente sull’utilizzazione delle strutture post-industriali per il maggior tempo possibile. In contrasto con l’omogeneità di fondo degli artisti, nella composizione sociale dei centri socio-culturali si annidava una qualità trasversale di attività: iniziative sociali, artigianato, laboratori, atelier, spazi per prove teatrali e sale concerto con il fascino della rovina permanente (lo scambio tra pratica artistica e architettonica fu coltivato intensamente nelle pratiche Industrial, e nelle prime sperimentazioni techno). Gli artisti erano, in questo periodo, spesso parte del movimento, con diversi livelli di integrazione, a volte data per acquisita, altre volte invece in misura più effimera, con margine critico.

I più piccoli e i più grandi quartieri industriali, alle periferie dei centri cittadini europei, furono in un primo tempo risparmiati dall’intervento della speculazione. Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Novanta, in concomitanza con i processi di espansione urbana, emergono piani di sviluppo che portano massicci attacchi a queste aree. Queste appropriazioni non rientrano però completamente nel modello proprio della gentrificazione, perché riguardano solo parzialmente aree residenziali – e quando lo fanno si tratta di aree residenziali appartenenti a strati della popolazione che dispongono di poca o nessuna rappresentazione o, in altre parole, di nessuna influenza sulle decisioni relative al loro territorio.

L’Isola appare essere oggi un caso esemplare di questo tipo di soft gentrification. Una popolazione mista, caratterizzata per gran parte da proletari e migranti, inserita in un contesto costituito da poche grandi arterie di transito, piccoli parchi pubblici dove i residenti possono incontrarsi, sono fra gli ingredienti che non rendono possibile una semplice presa di possesso da parte delle grandi imprese del commercio immobiliare – e che ne fanno crescere, al tempo stesso, il loro desiderio senza limiti. Questa è la situazione all’Isola. Negli anni Ottanta e Novanta il quartiere era stato poco intaccato dagli sforzi di ripianificazione urbana. L’edificio della Brown Bovery a forma di stecca fu preso in uso con il nome di «Stecca degli Artigiani», da artigiani e associazioni che trasformarono i suoli adiacenti in parchi. Poi, a cominciare dal 2001, l’amministrazione di destra presentò grandi progetti di rimodellamento degli spazi pubblici. Per la prima volta si parlò del progetto di una Città della Moda, o di una Città della Moda e del Design, e il vocabolario delle industrie creative iniziò a diffondersi gradualmente. Uffici, parcheggi e un centro commerciale erano stati pensati per sorgere al posto della Stecca e dei parchi. Nel 2005, la città cedette la maggior parte del controllo sulla pianificazione dell’area Garibaldi-Repubblica, strategica per l’Isola, all’immobiliarista internazionale Hines e al gruppo Ligresti. La soft gentrification, non solo nel caso di Isola, si basa su diversi fattori: una retorica accattivante di partecipazione e coinvolgimento dei cittadini, una propaganda ecologica «soft» e il richiamo costante all’innovazione e alla creatività. Gli investitori pretendono di assicurare la partecipazione di tutti alla pianificazione. In verità, qui si compiono processi di top-down, governati da personale specializzato e realizzati secondo una logica di distribuzione fra inclusione ed esclusione. I non-conformisti sono denunciati come incapaci di negoziare e quindi esclusi; mentre gli inclusi seguono una logica di crescente asservimento. In questo processo possono essere individuati quattro livelli differenti, anche se questi si sovrappongono in larga misura convergendo l’uno con l’altro: una escalation di repressione, una pseudo-partecipazione utilizzata come forma di esclusione, partecipazione attivante come asservimento macchinico, partecipazione co-decisionale fra le diverse élite.

Il primo livello è una forma di escalation, generalmente evitata perché corre il rischio di generare immagini indesiderate di repressione. Tuttavia, nel caso dell’Isola si è verificato un esempio di assoggettamento repressivo attraverso l’apparato di Stato e la macchina capitalistica. Poiché la Stecca aveva attratto una certa attenzione internazionale, anche grazie alla sua prassi trasversale, l’assalto da parte della polizia e dei dipendenti di Hines che la vide coinvolta nel 2007, dovette essere preceduto da massicce campagne mediatiche contro i progetti che si svolgevano al suo interno, e più in generale contro il quartiere Isola stesso, facendo leva soprattutto su classici «specchietti per le allodole» come il commercio di droga e l’attività criminale. Immediatamente dopo l’assalto militare, la demolizione dell’edificio cominciò a rendere concreto, una volta per tutte, il dominio privato degli immobiliaristi sull’intera area.

Sostanzialmente più intensivo e offensivo di qualsiasi strategia repressiva in atto, è stato, ed è ancor oggi, il livello della pseudo-partecipazione, considerato sin dall’inizio parte integrante del progetto di acquisizione sotto il marchio di community-building. La strategia che Hines utilizza per mettere in moto la sua macchina di propaganda, consiste nella realizzazione di grandi incontri «aperti» a tutti dove la compagnia lavora alla costruzione di consenso sui progetti di costruzione. In maniera prevedibile, i piani sono incentrati sulla gente («I progetti della gente» è uno degli slogan di Porta Nuova nel 2008, ed è ora il nome dell’intero progetto). Ma cosa significa concretamente tutto questo e, soprattutto, di quale gente si tratta? Un livello particolarmente cinico, perché induce a credere nell’illusoria partecipazione alla pianificazione del futuro; i «co-interessati», gli pseudo-partecipanti sono, in verità, quei gruppi che corrono il rischio di essere in futuro cacciati via dal loro stesso quartiere a causa dell’innalzamento degli affitti.

Il terzo livello è quello della partecipazione, intesa come asservimento macchinico in senso stretto. Gruppi della società civile, associazioni e singoli individui, sono qui incoraggiati a divenire «parte attiva» nella pianificazione e nel processo di trasformazione del proprio ambiente. Tutto questo potrebbe essere chiamato come una sorta di «terapia occupazionale», dove i ben preparati rappresentanti delle corporazioni multinazionali immobiliari definiscono il terreno del campo d’azione e, soprattutto, i confini all’interno dei quali piccole discussioni possono essere condotte intorno a questioni relativamente banali. Queste decisioni preliminari sui limiti del discorso condizionano anche la divisione fra buoni e cattivi, fra integrazione dei subordinati ed esclusione degli indocili. Anche a questo livello è evidente la funzione retorica della partecipazione, ma, invece della rassegnazione o della ribellione, ne va qui dell’attiva complicità nel peggiorare la socialità all’interno del quartiere. Sul lato del coinvolgimento, i gruppi «buoni» che si lasciano asservire (dagli architetti ai riparatori di biciclette, dai critical gardener ai green designer, fino a tutte le gamme di gruppi ambientalisti, molti dei quali certamente con buone intenzioni), possono fare buon viso a cattivo gioco. Si promette loro la sistemazione finale in uno splendente «incubatore» e nel frattempo, durante la fase di transizione, devono accontentarsi delle baracche messe a disposizione da Hines. Solo al quarto livello ha luogo la partecipazione nel vero senso della parola, ovvero un reale coinvolgimento nel processo decisionale sulle questioni più importanti relative a pianificazione e sviluppo: Boeri Studio – all’inizio dalla parte di chi contestava i piani di costruzione – nel 2006 è ingaggiato da Hines per la progettazione dell’area dove sorgevano la Stecca e i giardini dell’Isola.

Stefano Boeri assume anche il compito di dare al progetto quel tocco ecologico in grado di attirare i nuovi ricchi della classe creativa. Un «bosco verticale», in altre parole qualche alberello piantato lungo tutta l’altezza dell’edificio, allo scopo di abbellire due dei grattacieli in progetto, e realizzare appartamenti di lusso con l’etichetta di «quartiere ecologico», proprio su quei terreni pubblici precedentemente adibiti a parco. I quattro livelli costruiti attorno alla retorica della partecipazione sono permeati e rafforzati da un’ulteriore linea d’azione: la promozione dell’innovazione e della creatività. Questa si sviluppa in accordo con le politiche urbane neoliberali, incentrate sul motto della città creativa, portate avanti da tutte le possibili destre, centro-destre, da politici di centro sinistra in tutta Europa e sostenute pseudoscientificamente da esperti come Richard Florida. Per questo piano discorsivo, incentrato sull’ideologia della città creativa, è inizialmente importante che i protagonisti del campo artistico vengano coinvolti nei progetti di gentrificazione. Il capitale intellettuale e mediatico del ex partecipante a documenta Stefano Boeri (nominato Assessore alla Cultura, alla Moda e al Design di Milano nell’autunno del 2011) è impagabile nella fase di sviluppo del progetto Garibaldi-Isola. Il punto di cristallizzazione di questa linea d’azione è il concetto di «incubatore».

Il progetto di convertire la Stecca in un «incubatore», era già venuto alla luce nel 2005. L’Incubatore dell’arte era emerso allora nei discorsi dei progettisti per poi riapparire, sempre con maggior frequenza, in anni più recenti, come «pensiero» fondamentale per la rivitalizzazione e lo sviluppo, soprattutto economico, dell’area in questione, a indicare la fase in cui «l’uccellino della creatività si prepara alla schiusa». La principale caratteristica di questi incubatori è la possibilità di poterne usufruire solamente per un periodo limitato. Con l’uso provvisorio di edifici da rinnovare o da smantellare, o nell’uso limitato nel tempo di edifici nuovi attraverso progetti «creativi», si assicurano fondamentalmente due cose: una costante rotazione delle persone coinvolte, che non possono quindi interferire con gli interessi politici ed economici a causa del loro temporaneo coinvolgimento, ma anche un incremento nel valore del quartiere, attraverso progetti creativi sempre nuovi, a voler sottolineare e valorizzare un’affinità culturale con una nuova borghesia, appartenente a una classe media post-colta. Ma in questo gioco ci sono anche «i cattivi», quelli che non prendono parte, che non vogliono essere al servizio, gli incorreggibili, i guastafeste, che non vogliono nessun incubatore, ma piuttosto un dirty cube. Nel 2001, all’incirca nello stesso momento in cui furono resi pubblici i piani di rimodellamento urbano di Isola, fu fondato l’Isola Art Project. Anche questo un progetto artistico, ma con alle spalle l’esperienza problematica dei precedenti usi artistici dello spazio industriale, e che si ritrovò, parallelamente ad altri progetti europei, in una nuova e impetuosa corrente, al tempo denominata «arte politica» – definizione tornata in auge anche oggi.

Per quanto riguarda Isola Art Project, l’interesse principale non era più rappresentato dal feticcio delle rovine industriali, o dal pathos dell’atto estetico portato dal singolo artista, quanto piuttosto dalla vita di ogni giorno all’interno dell’Isola, e in particolar modo nella Stecca degli Artigiani, con tutti i suoi problemi legati ai diversi interessi e contesti sociali di artigiani, residenti, drogati, artisti, ecc. Per questi ultimi, la partecipazione in lotte trasversali, contro la trasformazione del quartiere, non avrebbe potuto funzionare senza una coscienza auto-critica della funzione dell’arte nei processi di gentrificazione. Sulla base delle esperienze locali nei decenni passati, così come su quelle dei processi di valorizzazione noti a livello internazionale (un esempio su tutti l’esperienza newyorkese di SoHo), gli errori e le mancanze dei primi anni non dovevano essere ripetuti senza una dovuta riflessione. Un effetto importante di questa nuova consapevolezza è stato quello di non voler esercitare una «pura» pratica artistica, né una «pura» pratica curatoriale, né un commercio d’artigianato artistico o una prassi di servizio sociale, quanto piuttosto nel sollevare l’attenzione su una pratica dell’inquinare, dell’insozzare, del contaminare. 

Con il nome Isola dell’Arte e, più tardi di Isola Art Center, il secondo piano della Stecca fu usato, dal 2003 al 2007, come uno spazio dove gli artisti, raccolti attorno al «sub-curatore» Bert Theis, praticarono il concetto e la dimensione del dirty cube. Piuttosto che «riempire» la fabbrica con istallazioni, si decise di orientare la pratica artistica del centro verso la site-specificity: i lavori – in parte integrati direttamente nelle varie stanze – dovevano, fra gli altri, adempire al compito di difesa dell’edificio Stecca contro lo sgombero e la demolizione; mentre si rafforzava la collaborazione con i residenti anche attraverso alcune assistenze sul piano pratico, come l’attivazione di aste d’arte per il finanziamento delle numerose azioni legali, in parte di successo, volte ad evitare e ritardare i progetti di edificazione.

Il cube è «dirty» precisamente perché non si tratta di un in-cubatore (concatenamento di arte ed economia capitalista), ma permette il concatenamento trasversale di pratiche e gruppi che non avevano mai cooperato prima gli uni con gli altri, mentre ora portano disordini, impurità, inquietudini nei mondi dell’Isola minacciati da una deterritorializzazione asservente.  Al di là della site-specificity del dirty cube, gli artisti-attivisti svilupparono sotto l’etichetta di Isola Art Center, soprattutto dopo lo sgombero della Stecca, una pratica denominata fight-specific: ciò che accade all’Isola non è più semplicemente una prassi artistica che include e commenta il luogo del suo posizionarsi, ma piuttosto una pratica artistica che si impegna nelle lotte specifiche che riguardano questo luogo.

Nella nuova definizione di «homeless art center», si esprime una differente idea di industria della creatività, contrapposta a quella che gli immobiliaristi vorrebbero vendere. Dal 2007, nella diaspora generale, il centro ha organizzato pratiche artistiche, iniziative politiche e discorsive nei negozi, nelle librerie, negli spazi delle associazioni culturali e sulle saracinesche dell’Isola, in cooperazione con il «Comitato I Mille» e l’«Associazione Genitori Confalonieri» riuniti nel «Forum Isola», e negli ultimi anni con Isola Pepe Verde.

Invece delle promesse luccicanti dell’Isola creativa emerge qui, nella mischia, la trasversalità selvaggia di una industria Isola che rifiuta l’obbedienza, la cooperazione e l’auto-addomesticamento negli incubatori delle industrie creative. Con essa, il nuovo significato del termine industria assume la forma di un’attività frenetica, di una operosità straripante, una «industriosità».

Traduzione di Roberto Nigro

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