Un’affollata solitudine
Su Antonio Caronia e i suoi avvisi ai naviganti
Allora gli insegnerete di nuovo a danzare all’inverso
come nel delirio delle balere
e l’inverso sarà il suo autentico luogo
Antonin Artaud, Per farla finita col giudizio di dio
È una solitudine affollata di automi, robot, androidi, cyborg quella che ci ha lasciato Antonio Caronia (1944-2013), nostro Maestro, tra i più cari e sardonicamente sorridente e gioiosamente felice, che mi sia capitato di incontrare. Antonio, che veniva dalla generazione dei miei genitori e dei nonni delle e degli attuali ventenni. Antonio che se n’è andato davvero troppo presto. Quando ebbi la fortuna di incontrarlo, nelle mille luci e mille viaggi tra Roma e Milano degli anni Novanta e Zero della transizione di Millennio, quindi con la sua partecipazione ai movimenti del precariato della ricerca e poi l’iscrizione al Basic Income Network Italia, Magister Antonio aveva già letto, visto, detto, scritto tutto quanto ci sarebbe accaduto, dopo, ora.
Per questo un grande evviva rivolto alla pubblicazione della raccolta di suoi scritti titolata Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale, a cura di Loretta Borrelli e Fabio Malagnini, prefazione di Alberto Abruzzese e postfazione di Un’ambigua utopia n. 10 (Meltemi, 2020, p. 255, € 18). Si tratta di una ventina di interventi distribuiti tra ermeneutica del cyborg, corpo della fantascienza e biopolitica del postumano, tra i primissimi anni Ottanta del Novecento e il principio degli anni Dieci del Duemila, con la lezione all’Accademia di Belle Arti di Brera su La nascita della biopolitica e l’uomo artificiale (6 giugno 2010). Cioè nella seconda vita di Antonio Caronia, laureato in matematica, di formazione trotzkista, negli anni in cui si diffondeva il trotzkismo cosmico del posadismo, acerrimo oppositore del mondo bipolare, contro il realismo capitalista e quello socialista sovietico, diremmo oggi, egli, come raccontava sempre, imparava le lingue occupandosi di esteri nella sezione italica della Quarta Internazionale, per operare poi una cesura politica e culturale, abbandonando la logorata sinistra endogamica e approdando nella seminale rivista Un’Ambigua Utopia, quindi cominciando a tradurre e introdurre per noi i capolavori di James G. Ballard, Philip K. Dick, William Gibson e molti altri: la nostra formazione letteraria.
Avvisi ai Naviganti
E allora questa pubblicazione è un Avviso ai Naviganti (AvANa BBS era la rete romana di metà anni Novanta) delle più giovani generazioni per (ri-)scoprire quello che era un baby boomer da sempre schiettamente in polemica con i suoi coetanei e che quindi oggi avrebbe continuato a tessere reti intergenerazionali, come fece in vita. E le mie ultime due occasioni di incontro con Antonio furono proprio in questo senso di ironica tensione comunicativa, polemica e immaginativa transgenerazionale.
Un pomeriggio del 2010 all’allora mitica libreria Flexi di via Clementina nella Suburra romana, in compagnia di due, ai tempi giovani, protagonisti della scena tecno-digitale, ai quali era quasi costretto a rivolgersi per interposta persona: “Pe’, ma perché continuano a chiamarmi Gadda e non Antonio?”. “E sarà perché sono in fissa con la virtualità del tuo indirizzo email e preferiscono immaginarti in rete che in presenza”. Poiché i due appassionati di immateriale utilizzavano il nome del suo indirizzo e-mail (appunto gadda1944) per chiamarlo in presenza, con lo spaesamento a metà tra Beckett e Keaton di Antonio, costretto a guardare interdetto dietro le sue spalle alla prima domanda dei due: “Gadda, ma allora tu che ne pensi di questo libro?”. Ma Gadda chi? Nel suo genovese stemperato nel milanese. Gadda, l’ingegnere in blu di Alberto Arbasino. In A Gadda Da Vida suonava ossessivamente ricorsivo il 1968 psichedelico.
Quindi qualche mese dopo, in una libreria salernitana, approfittando di una mia trasferta per assistere un amico alle prese con un concorso universitario, scappai in compagnia allargata e divertita, in occasione della presentazione di Filosofie di Avatar, che Antonio aveva curato con il suo omonimo Antonio Tursi. E lì, alla domanda rudemente polemica rivolta nei suoi confronti da una compagna che contestava alla radice l’aver fatto un libro su Avatar, “film prodotto dell’imperialismo cinematografico guerrafondaio hollywoodiano e quindi ontologicamente il male assoluto”, Antonio Caronia piroettò su sé stesso – da perfetto ballerino, con cravatta nera e impeccabile giacca nuance che svolazzavano, da perfetto dandy – per agguantare il microfono e intonare, col sorriso malandrino ed esaltato, uno splendido “va bene, passiamo oltre che a questa domanda neanche rispondo”. Tra le nostre risa e urla e gomitate e pacche e scompisciate, dinanzi all’indignazione dell’invero assai ristretta area – ridotta a due – di ortodossi dell’eterno zdanovismo, che preferirono sapientemente accomodarsi fuori. Poi, nella nottata di chiacchiere e sorrisi, anche con Giso Amendola, a bere, fumare e ripetere a intervalli regolari «va bene, passiamo oltre»! Con la proposta di pensare un libro collettivo su Inception che aveva stregato tutti noi, avendolo visto proprio in quei mesi. Uno dei mille progetti sognati. E basta. Che poi non ci siamo più rivisti, né sentiti.
Perché le presentazioni e le discussioni con Antonio erano – soprattutto, sempre e prima di tutto – uno spasso indicibile di fulminante arguzia, sapienza, intelligenza. Un fomento intellettuale e una verve sconfinata. Contro qualsiasi mortifero dogmatismo e mesta chiusura intellettuale. Per fortuna possiamo godere di alcuni ricordi, una playlist di 40 video-incontri con Caronia. Sicché, quando quest’estate sono passato alla presentazione di questo libro all’interno dell’Hackmeeting al Forte Prenestino, ho dovuto abbandonare il campo per lo sconforto che mi prese, ma certo ero io stesso in un periodo sconfortante. Così ecco perché questa recensione farlocca, prolissa e sconclusionata arriva sì tardivamente. Seppure la mia rimembranza di Antonio sia continua e duratura, perché egli è stato il mentore del nostro trentennio insubordinato, coprotagonista della nostra autobiografia collettiva.
La natura (post)umana di tecnica e istituzioni
E allora per spiazzare e spezzare questa affollata solitudine in cui ci ha lasciati, leggiamo questo libro, anche per giocare ad evocare il suo spirito nei golem, automa o robot del futuro che Angelo Maria Ripellino nella splendente Praga magica, ricordata nel libro, definiva come «servi obbedienti ma torvi e sornioni […] feticci dell’aggrondata civiltà tecnologica» (p. 63) e che a noi piace invece immaginare come quello scrittore e poeta, umano da sempre troppo postumano, il cui dovere «non è quello di andare a rinchiudersi vigliaccamente in un testo, in un libro, in una rivista da cui non uscirà mai più, al contrario è quello di uscire fuori per scuotere, per attaccare lo spirito pubblico», come incita l’Antonin Artaud protagonista di Antonin Artaud, la battaglia del corpo contro il linguaggio (p. 213).
E Antonio Caronia tornerebbe a scuotere lo spirito pubblico indicandoci «il ritmo di trasformazione culturale e le possibilità aperte al campo della cultura in generale» (p. 203) nei mutamenti dell’umano inteso come specie inventiva, come «specie portatrice di tecnica e linguaggio», come soggetto che si definisce mediante un movimento, il movimento di autosvilupparsi dice Deleuze lettore di Hume (Empirismo e soggettività, 1953), in quella tensione evolutiva dell’essere umano in società che inventa istituzioni, perché la sua natura è l’artificio. «La natura non è più come nel pensiero pre-biopolitico sovranista, giuridico, disciplinare, la natura non è più qualcosa di dato una volta per tutte, di non modificabile. La natura è qualcosa che può essere modificata dall’azione dell’uomo» (p. 37). Perché l’essere (post)umano è da sempre creatività e artificio, riprendendo qui Ubaldo Fadini col suo formidabile Il tempo delle istituzioni (ombre corte, 2016), in un percorso che presumo possa arrivare fino al Diritto vivente (Quodlibet, 2020), ultimo libro di Sandro Chignola, colpevolmente ancora non letto, ma che vorrei recensire su queste pagine e che, anche a partire dai nomi citati nel sottotitolo (“Ravaisson, Tarde e Hauriou”), credo si inserisca in quella tensione evolutiva dell’istituzionalismo dell’altro passaggio di secolo, dove l’immaginazione istituzionale caratterizza la dinamica del diritto, artificio per eccellenza.
Ed ecco che il tema dell’invenzione istituzionale, in conclusione, mi porta a ricordare come Antonio Caronia abbia attraversato e rigenerato il modo di insegnare nell’istituzione Accademia delle Belle Arti, forse proprio nel senso, auspicato recentemente da Nicolas Martino, «di quel ripensamento generale dell’organizzazione del sapere all’interno delle Accademie che le trasformi in Politecnici delle arti in presa diretta con il mondo contemporaneo» e con il nostro divenire postumani. Di nuovo, e per sempre, Un’Ambigua Utopia? UAU?! Wow!
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