Vive, libere e senza debiti!
Una lettura femminista del debito
Dal 22 ottobre è in libreria per ombre corte «Vive, libere e senza debiti! Una lettura femminista del debito» di Luci Cavallero, Verónica Gago, con una postfazione di Federica Giardini. Proponiamo qui in anteprima un estratto di questo importante lavoro.
Il movimento femminista negli ultimi anni si è caratterizzato non solo per la dimensione delle mobilitazioni cui è stato capace di dar vita, ma anche per la sua capacità di far nascere un dibattito e mettere in circolazione concetti e analisi su molti temi diversi. Un arco ampio, complesso ed eterogeneo riassunto nello slogan Dall’aborto al debito. Ma ha fatto anche di più: ha messo questi temi in connessione tra loro, inaugurando incroci, intersezioni e vincoli sotterranei che sono diventati parte di un nuovo vocabolario comune e di una inedita forma di comprensione collettiva. Non si tratta solo di aver imposto un’agenda, anche se questo è fondamentale, qui è in gioco anche una politicizzazione di questioni che sono state per molto tempo minoritarie o marginali, o trattate fino a poco tempo fa esclusivamente da esperti del settore. Quello che è in gioco qui è anche la messa in relazione di zone di sfruttamento della vita apparentemente disconnesse tra loro o trattate come variabili indipendenti dall’economia mainstream.
Iniziamo con una diagnosi generale. Il movimento femminista ha messo in evidenza che la precarietà nella quale ci gettano le politiche neoliberali costituisce una economia specifica della violenza che ha il suo culmine nei femminicidi e travesticidi. Potremmo sinteticamente dire che abbiamo costruito una comprensione molteplice della violenza contemporanea che complessifica anche le sfide che vogliono disarmarla. Si può stabilire che femminicidi e travesticidi sono crimini politici perché preventivamente si sono individuate le relazioni tra la violenza sessuale e quella lavorativa, tra il razzismo e la violenza istituzionale, tra la violenza del sistema giudiziario e quella economica e finanziaria. Ciò che oggi esplode come “violenza domestica” diventa incomprensibile senza questa mappa e questo diagramma di connessioni.
Quando parliamo di violenza contro le donne, le lesbiche, i travesti e i trans, tocchiamo il cuore del sistema violento del capitalismo, ciò che lo rende possibile nella sua crudeltà contemporanea. È proprio questo metodo di connessione a essere specificatamente femminista, ed è ciò che fa della intersezionalità una politica concreta: capire come il debito organizzi obbedienza a livello statuale significa iniziare a visualizzare come organizza la vita quotidiana in ogni casa. Significa rivendicare insieme il diritto di decidere sui nostri corpi, il diritto all’aborto e il rifiuto dell’estrattivismo. Permette di mettere in evidenza come si articola e come funziona la normatività eterosessuale nelle politiche abitative, all’interno della speculazione immobiliare nei quartiere popolari e così via.
Sfruttamento e differenza
Per affrontare il problema del debito proponiamo di adottare un metodo: tirarlo fuori dall’armadio. Il debito di ogni persona, di ogni casa, di ogni famiglia, va prima di tutto discusso. Bisogna narrare questa condizione, concettualizzarla per capirne il funzionamento, capire in quali economie riesce a infiltrarsi. Di quali forme di vita specifiche riesce ad approfittare, come influisce sui processi di produzione e riproduzione della vita, in quali territori riesce a crescere e che tipo di obbedienza produce. Togliere il debito dall’armadio significa renderlo visibile e farne un problema comune. Significa disindividualizzare questa condizione, e aggredire la sua capacità di produrre vergogna fin quando rimane una “questione privata” che ognuna di noi affronta da sola. Ma significa anche mostrare i diversi funzionamenti del debito che colpisce donne, lesbiche, trans, travesti.
Significa studiare i diversi gradi di sfruttamento che si producono quando a essere indebitate sono le donne, casalinghe, mamme, lavoratrici regolari e lavoratrici irregolari dell’economia popolare, lavoratrici sessuali, migranti, abitanti delle borgate e delle favelas, indigene, trans, contadine, studentesse. Entrambi i movimenti – rendere visibile il debito ma anche la sua caratterizzazione sessuale e di genere – serve per togliere a questa condizione la sua potenza di astrazione. Entrambi i movimenti investono direttamente una condizione geopolitica specifica: la condizione di indebitamento di uno studente americano delle università private non è la stessa di quella di una lavoratrice di una piccola cooperativa di quartiere che vive di sussidi. Per questo non si tratta solo di parlare di una Fabbrica dell’uomo indebitato, come fa Maurizio Lazzarato (2012), presupponendo una condizione universale della relazione creditore-debitore, ma di mettere in evidenza due caratteristiche che non vengono mai prese in considerazione in questo discorso: la differenza di genere e la potenza della disobbedienza.
Da un lato la differenza di genere determina diverse condizioni di indebitamento, giacché questa differenza presuppone:
1) Un tipo particolare di morale diretta alle donne e ai corpi femminilizzati.
2) Un grado di sfruttamento diverso direttamente proporzionale ai rapporti di subordinazione.
3) Un rapporto specifico tra il debito e il lavoro di riproduzione.
4) Una declinazione singolare direttamente legata alla violenza maschilista con la quale si articola il debito.
5) variabili specifiche sui possibili sviluppi futuri quando le obbligazioni finanziare investono i corpi femminilizzati.
Dall’altro lato quello che ci interessa mettere in evidenza sono le possibilità di disobbedienza e le forme pratiche di ribellione che nascono dal movimento femminista (su questo torneremo nell’ultimo capitolo). Tutto questo non mette in discussione che quello del debito sia un dispositivo di sfruttamento trasversale, che funziona catturando la produzione del comune, ma va sottolineato che non esiste una soggettività universale del debito, né una relazione debitore-creditore che possa prescindere dalle situazioni concrete e dalle differenze sessuali, di genere, di razza e abitative, proprio perché il debito non rende omogenee queste differenze, ma al contrario le sfrutta. È assolutamente determinante il modo in cui il dispositivo del debito mette radici in territori, economie, corpi e conflitti, di volta in volta diversi.
In questo senso tirar fuori il debito dall’armadio significa operare con un gesto femminista sul dispositivo del debito: rompere i suoi recinti, deprivatizzarlo e dargli corpo, voce e territorio, e quindi studiare i diversi modelli di disobbedienza che si stanno sperimentando. Ecco perché c’è anche un terzo movimento – dopo la rottura dei recinti e la corporeizzazione – che è assolutamente inseparabile dal gesto femminista: cospirare tutt* insieme per disobbedire al debito. Non si tratta solo di una prospettiva analitica, ma proponiamo una comprensione del problema che sia parte di un programma di disobbedienza. Tirar fuori il debito dall’armadio è un gesto politico contro il senso di colpa, contro l’astrazione del comando esercitato dalla finanza e contro la morale del buon pagatore con la quale si propagandano i corpi femminilizzati come soggetti responsabili, e per questo preferiti come destinatari dei prestiti.
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