Corpi, parole, immagini (di sé, di altre donne), mezzi e strumenti per dare visibilità ai primi, un altro senso alle seconde, ripensare le terze. Lo hanno fatto le donne coi movimenti delle donne animando una rivolta chiamata «femminismo». Le hanno fatto anche le artiste della mostra «L’altra misura: arte e femminismo negli anni Settanta». Tra le pratiche dei femminismi e le pratiche artistiche obiettivi comuni e percorsi intrecciati: costruirsi dei corpi votati ad altro che al dominio.
Ci vediamo mercoledì.
Gli altri giorni ci immaginiamo
Un libro femminista
La posta in gioco era alta. Si trattava di tentare la difficile via di un racconto nuovo, che si ponesse al di fuori dei modelli che la cultura patriarcale aveva imposto sino ad allora
Pubblicato nel 1978, Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo è un libro realizzato da un gruppo di artiste, femministe, da tempo impegnate a riflettere sull’immagine, sui suoi caratteri e sulle sue potenzialità espressive. In particolare, ciò che guidava i loro personali percorsi era la necessità condivisa, ormai sentita come ineluttabile, di mettere a fuoco la possibilità di una nuova rappresentazione della donna, alternativa rispetto allo sguardo maschile e, invece, in linea con il loro sentirsi. La posta in gioco era alta. Si trattava di tentare la difficile via di un racconto nuovo, che si ponesse al di fuori dei modelli che la cultura patriarcale aveva imposto sino ad allora.
Seppur con differenti inclinazioni, intenzionalità ed anche esiti, Bundi Alberti, Diane Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli, Adriana Monti, Esperanza Núnez e Silvia Truppi in questo libro hanno voluto tradurre le loro riflessioni comuni – il mercoledì, appunto, si incontravano e si confrontavano su questi temi, ma non soltanto – in una narrazione per immagini e parole nella quale si riversa tutta la forza innovativa delle loro posizioni.
Le autrici dei lavori raccolti in questo volume intendono mettere in discussione l’idea stessa che lo sguardo maschile sul mondo sia il solo esistente, l’unica prospettiva plausibile e vogliono introdurre una posizione differente, femminile, cioè basata sulla coscienza che le donne hanno di se stesse e sulla loro consapevolezza di essere donne nel loro agire, anche quotidiano. Proprio in questi termini, questo libro può essere assunto come caso esemplare ed emblematico di arte femminista, in quanto si basa sulla ricerca di una posizione di alterità, appunto, declinata secondo modalità innovative e incentrata su tematiche che risultano essere fondamentali per l’arte italiana legata al femminismo negli anni Settanta. In primo luogo, è molto significativo il fatto che il volume nasca dalle riflessioni condivise di un gruppo di donne, secondo una attitudine tipica del femminismo dell’epoca. Se le riunioni del mercoledì non erano quelle di un gruppo di autocoscienza in senso stretto, è pur vero che le dinamiche che venivano messe in gioco erano, evidentemente, molto simili. Questo libro non è il frutto, infatti, dell’adesione a una poetica unitaria, come avveniva tradizionalmente per i gruppi artistici.
Non si tratta di un lavoro in cui ciascuna abdica alla propria personalità per far confluire il suo contributo in una dimensione unitariamente collettiva. Al contrario, sia negli interventi singolarmente ideati, pensati e firmati, sia in quelli realizzati con altre artiste, quello che si propone è il risultato di una dialettica che sta a monte e che si traduce in una collaborazione spontaneamente sentita, esito dell’obiettivo comune – trovare un nuovo linguaggio, una nuova modalità espressiva – che le protagoniste hanno insieme assunto. La volontà di porsi in antagonismo rispetto alla cultura maschile, che ha avuto un ruolo fondamentale anche nella definizione dell’immagine convenzionale della donna ampiamente diffusa dai media, si ripercuote con evidenza nelle scelte linguistiche e tematiche di queste artiste. Che però non vanno solamente nella direzione, da molte praticata in quel momento, di smascherare lo stereotipo, denunciandone la natura convenzionale, lavorando su quello dal suo interno, magari con accenti ironici o parodistici.
È come se nel realizzare queste immagini le donne riuscissero a riprendere possesso di sé, a partire dal loro essere più fisico, per acquisire consapevolezza nel vivere, attraverso il corpo, i gesti, gli sguardi
Quello che viene proposto in questo libro è invece proprio un modello alternativo, nato da un punto di vista diverso, quello femminile, dal quale le autrici provano a proporre immagini altre. Al centro, sotteso alle varie interpretazioni, è quindi il tema identitario. L’uso della fotografia, come la scelta frequente di lavorare sul corpo, sul nudo, sono elementi che spiccano negli interventi che danno vita a questo volume e si legano strettamente all’intenzione di lavorare sull’immagine portando avanti un discorso positivo, assertivo. Protagonista di molti degli interventi pubblicati è dunque il corpo, il luogo dell’identità ma soprattutto della diversità, elemento questo che per il femminismo italiano, il femminismo della differenza, risulta sin dai primi interventi di Carla Lonzi essere un aspetto determinante. La corporeità è un riferimento essenziale per le ricerche artistiche dell’epoca, ma, anche in questo caso, il femminismo ha un ruolo essenziale nel raccogliere un interesse diffuso e svilupparlo a fondo, in nuove direzioni.
Il corpo qui messo in scena è un corpo spesso nudo, perché libero e naturale, ma quanto mai lontano dall’essere concepito come mezzo di seduzione: non è messo in ostensione per lo sguardo maschile, è vissuto con spontaneità, naturalezza e non senza una buona dose di ironia. È come se nel realizzare queste immagini le donne riuscissero a riprendere possesso di sé, a partire dal loro essere più fisico, per acquisire consapevolezza nel vivere, attraverso il corpo, i gesti, gli sguardi. Infatti, altrettanto ricorrente negli interventi contenuti in questo volume è il ritratto fotografico, che si trasforma, anche quando non lo è esplicitamente, in una forma dinamica di autoritratto, nel risultato di un mutuo guardarsi, per vedersi uguali in quanto donne, ma diverse nelle singole personalità.
Lo sguardo diventa, quindi, il vero protagonista di questo lavoro collettivo che si offre come una proposta di nuova immagine femminile e, contestualmente, si propone come una riflessione sulla fotografia, sul vedere e sul guardarsi
Il gioco di specchi che sorregge tutto questo lavoro, nel quale le protagoniste si confrontano l’una con l’altra mettendo in campo un guardare finalmente femminile, trova il suo momento più compiuto proprio nel ritratto, nella rappresentazione del volto, spesso messo in rapporto alla maschera in un continuo succedersi di svelamenti e di dialoghi visivi. Lo sguardo diventa, quindi, il vero protagonista di questo lavoro collettivo che si offre come una proposta di nuova immagine femminile e, contestualmente, si propone come una riflessione sulla fotografia, sul vedere e sul guardarsi, in linea con le più interessanti teorizzazioni coeve.
Viene apertamente messa in discussione la differenza di ruolo tra chi guarda e chi è guardato, che comportava quel distacco oggettivante su cui per anni si è creduta essere fondata l’idea stessa di reportage, con l’illusione della scrittura trasparente e oggettiva; come da più parti si stava sottolineando, la fotografia non è un veder dall’esterno, ma una forma di partecipazione, una posizione critica, e il mito dell’obiettività si infrange apertamente in questa serie di ritratti, nei quali si vuole proprio trovare un punto comune, una possibilità di rapporto tra chi guarda e chi è guardata. In questo caso, è attraverso l’identificazione che avviene fra chi sta al di qua e chi sta al di là dell’obiettivo, tra una donna che si riconosce in quanto tale nella donna che ritrae, che si annulla la distanza e si impone – attraverso un dialettico riconoscersi – un nuovo modo di vedere, che si fa esso stesso dialogo e confronto, non rappresentazione.
La figura della donna che viene proposta non è più lo specchio nel quale l’uomo vede riflessa la propria superiorità, ricordando l’innovativo pensiero di Luce Irigaray, molto amata in quegli anni in Italia ed espressamente citata nel libro in un intervento di Paola Mattioli. Al contrario, si attua un processo di riconoscimento e di identificazione nella differenza che traduce nelle immagini la dialettica attiva nel gruppo, chiudendo così il cerchio in una dimensione di rispecchiamento, inteso però come forma di conoscenza, nel rispetto delle diversità e non certo come appiattimento sulla convenzione.
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