Sintomatologia di un sentiero interrotto

Le forme aperte dell'eccedenza

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Dennis Adams, Patriot (Patriote), 2002.

Non ho «fatto», come usa dire, il ’68, per limiti anagrafici. Ero una quasi-adolescente che da una buona scuola media di una città di provincia vedeva il mondo sollevarsi, e negli anni immediatamente precedenti aveva già visto cambiare la vita quotidiana, con la musica beat, le minigonne e i pantaloni al posto dei vestiti bon ton, gli amori prima clandestini portati alla luce del sole. Ma quell’anno la vita quotidiana venne afferrata dalla vita pubblica: cambiò tutto, e dappertutto. Dai fratelli e dalle sorelle maggiori che studiavano all’università arrivavano i racconti delle esistenze capovolte, dei tradimenti di classe, delle facoltà occupate, degli autori scoperti, di una potenza giovanile dilagante in tutto il pianeta, dagli Stati uniti alla Francia, dalla Germania all’Italia, da Praga al Giappone, con una forza d’urto e una autorizzazione dell’opinione pubblica a «volere l’impossibile» che oggi, in tempi di decremento demografico e di assimilazione di qualunque protesta a problema di ordine pubblico, sarebbero impensabili1. Anche a tredici anni bisognava essere sorda e ottusa per non sentirsi presa, oserei dire «chiamata», da tutto questo. A ripensarci adesso, anche per chi non ne fu attore o attrice in prima persona il ’68fu precisamente questo: una chiamata, un’assegnazione al campo degli inquieti, dei critici, degli indisciplinati, dei ribelli. Il mondo si spaccava in due, l’ordine e il disordine, e bisognava scegliere da che parte stare. Per molti e molte di noi fu una scelta definitiva.

Ho «fatto» invece, da redattrice del «manifesto» e dopo, gli anniversari del ’68, e ciascuno è stato diverso dall’altro, a riprova che la storia si fa sempre con gli occhi e le domande del presente. Il decennale fu un lutto più che una festa: l’anno funesto del sequestro e assassinio di Moro chiuse il «lungo ‘68» italiano al peggio, con il movimento anch’esso sequestrato dalla lotta armata, mentre i nuovi ribelli – i «non garantiti» del Settantasette, antenati degli attuali precari – marcavano la loro differenza all’interno del ciclo cominciato dieci anni prima e già fratturato al suo interno dalla rivoluzione femminista. Il ventennale invece fu sì un anniversario: l’aria era cambiata, il ciclo si era invertito, la controrivoluzione neoliberale era trionfalmente in marcia, gli anni Ottanta erano stati teatro di una resa di conti impietosa con il decennio precedente; si poteva cominciare a ricollocare l’evento ’68 nel tempo lungo della storia, e a tracciarne un bilancio. Che fu tuttavia spiazzato, solo pochi mesi dopo, dall’evento ’89, interpretato da alcuni come l’effetto ritardato del ’68 mancato o represso nei regimi dell’Est europeo, e da altri, all’opposto, come la certificazione della sua definitiva sconfitta a Est e a Ovest. Come pure fu spiazzato dai fatti il trentennale, che anticipò di soli due anni l’esplosione di quel movimento no-global che del ’68 pareva ereditare parecchi tratti, se non fosse stato stroncato nel 2001 dalla repressione feroce al G8 di Genova e dall’attacco alle torri gemelle di New York.

Questo per dire come via via che la distanza della storia prevale sull’immediatezza ingannevole della memoria il ’68 si ripresenta come evento periodizzante, imprescindibile per capire il seguito della vicenda politica e culturale globale. Cambiano altresì, via via, le contese interpretative sul ’68: il ’68degli studenti e degli operai, degli studenti o degli operai; il ’68 come insorgenza rivoluzionaria o come fattore di modernizzazione e democratizzazione; il ’68 come fine o come inizio; il ’68 come bersaglio o come anticipazione corriva della controrivoluzione neoliberale.

Queste ultime due contese, in particolare, sono state al centro del quarantennale e di questo cinquantennale, caduti entrambi in tempi di agonia della politica ufficiale, il primo all’inizio, il secondo nel pieno di una crisi del neoliberalismo nella quale non sembra tuttavia maturare alcuna via d’uscita dal «realismo capitalista», come lo chiama Marc Fisher, che ha forgiato le ultime generazioni2. Lucido e tragico, il libro che Fisher ci ha lasciato in eredità aiuta a mettere a fuoco con precisione la distanza fra il ’68 e il cinquantenario che stiamo celebrando. Se, come scrisse Sartre, il ’68 fu essenzialmente «un’apertura del campo del possibile», il cinquantenario cade in un’epoca contrassegnata dalla chiusura del campo del possibile. Se il ’68 disegnò mondi e forme di vita alternativi, oggi non sembra immaginabile alcuna alternativa al mondo che c’è. Se nel ’68 ribellarsi era giusto, oggi ribellarsi, per di più contro un’autorità nel frattempo evaporata in ogni sua forma, sembra diventato impossibile, o inutile. In questo quadro ribaltato le ultime due contese di cui sopra acquistano un’urgenza diagnostica e politica pressante: ne va non di chi ha fatto il ‘68, ma di ciò che il ’68 ha fatto di noi e di quelli venuti dopo di noi.

Le due contese sono strettamente connesse. Se il ’68 sia stato, come per alcuni (un nome per tutti: Mario Tronti), evento terminale – del grande Novecento, della grande politica, del Movimento operaio – o, come per altri (un nome per tutti: Toni Negri), evento inaugurale – di una nuova soggettività, di una nuova immaginazione politica, dell’esodo dal comando capitalistico – è la domanda che apre e divide il campo dell’analisi e del giudizio sul «dopo», che arriva fino a oggi ed è infestato di revisionisti: il ’68 cavallo di Troia del neoliberalismo, il ’68 matrice dell’antipolitica, il ’68 «realizzato», in Italia, dal berlusconismo, e ancora – l’ultima che ho sentito – il ’68 motore di quel distacco fra sinistra elitaria e popolo che ci ha consegnato ai Trump e ai Salvini3. Quando i conti con la storia sono difficili, si fa prima a liquidarli dichiarando fallimento.

La querelle sul ‘68 fine o inizio, in realtà, è meno divisiva di quanto sembri. Che col ‘68 finisca – o si compia, o si esaurisca per disvelamento dei suoi inganni – la parabola della modernità politica è il punto condiviso da cui partire per sporgersi sul seguito della vicenda. Comincia allora il lento tramonto della forma-Stato e della forma-partito: il dispositivo con cui la modernità aveva saldato, a Ovest e a Est, questione sociale, questione nazionale e rappresentanza politica non è più in grado di mantenere le promesse universalistiche di libertà, fraternità e uguaglianza scritte solennemente nelle tavole dell’89 francese. Il movimento planetario che nel ’68 si prende la scena pretende la realizzazione e il compimento di quelle promesse, ma qualcosa eccede dalle condizioni disciplinari e disciplinanti in cui esse si davano, e non tornerà più nei ranghi.

Che cosa, esattamente, eccede? Il dissenso vero è su questo: forma del rapporto capitalistico dopo l’industrialismo, forma del soggetto politico dopo lo Stato, il partito e la rappresentanza, forme del divenire donne e uomini dopo il patriarcato e oltre la soggettivazione edipica che della saldatura fra patriarcato e contratto sociale moderno è stata garante. In quell’imprevisto planetario che il ’68 fu, e in quell’ancor più imprevisto planetario che fu il movimento delle donne, questa eccedenza si mostrò improvvisamente ovunque, nelle piazze invase da una moltitudine non più incanalabile nella rappresentanza, nelle fabbriche dove si insinuava il rifiuto del lavoro, nelle università dove venivano contestati i saperi costituiti, nei manicomi e nelle carceri dove saltavano i confini fra norma e devianza, nelle case terremotate dal conflitto fra le generazioni e i generi, nelle strade affollate di corpi, segni e gesti oltraggiosi di quello che oggi si chiama decoro. «Movimento» del ’68 va inteso in primo luogo in questo senso letterale: un improvviso mettersi in moto di tutto quello che pareva inchiodato alla ripetizione e destinato alla sopportazione, nella vita personale e nella vita pubblica. Ribellarsi è giusto, le cose si combinano con teorie ambiziose e pratiche inedite, l’immaginazione vola e tutto diventa possibile.

È un errore fatale, un esercizio appunto da revisionisti della domenica o da opinionisti del lunedì, vedere in tutto questo l’anticamera dell’individualismo spoliticizzato di oggi. L’esplosione di soggettività del ’68 tutto fu fuorché individualista. Se è vero che l’esistenza personale reclamava il suo ruolo nella storia, è altrettanto vero l’inverso, che «la storia all’improvviso entrava nelle nostre esistenze», come ha scritto Luisa Muraro; e quando la storia entra nelle esistenze, o quando l’esistenza diventa politica, non c’è individualismo ma soggettività in comune e comune costruzione di mondo, che dell’individualismo sono l’esatto contrario. Ancora Muraro: «Al cuore del ’68 c’era la nascita della soggettività nella sfera dell’azione politica. Con il ’68 abbiamo scoperto che ci si può ribellare contro cose che credevamo immodificabili, seguendo non un dettato superiore, com’era nelle organizzazioni di massa, ma il proprio desiderio messo in parola e condiviso con altri»4. Troppo poco? Questo incrociarsi del personale con la p minuscola con la Storia con la s maiuscola, era o non era, e tutt’ora è o non è laddove si presenta, azione politica? Alla fin fine, la domanda su che cosa comincia con il ’68 si riduce a questo: dopo la parabola del moderno, si dà o non si dà una pratica politica fatta sulla base di desideri condivisi, senza l’organizzazione di un partito, la mediazione di rappresentanti, il riconoscimento di uno Stato? E se non si dà, dove sta o dove stava l’errore?

All’opposto dei revisionisti di oggi, vorrei sostenere che l’errore del ‘68 non è stato di prendere troppo, bensì troppo poco sul serio l’installarsi della soggettività al cuore dell’azione politica. E’ stato infatti il femminismo – non con ma nonostante il ‘68, come scrisse Carla Lonzi – a portare la questione della soggettività alle dovute conseguenze, sul piano della teoria e della pratica. Come non bisogna stancarsi di ripetere contro la vulgata di sinistra corrente, il femminismo non fu né un’aggiunta né una costola del ’68: fu un taglio al suo interno, una rivolta dentro la rivolta che ne radicalizzò il portato. Esplicitato con la separazione femminile dalla politica maschile, quel taglio significava da un lato il sottrarsi delle donne a una predicazione della fratellanza e dell’uguaglianza che anche nella rivoluzione sessantottina, come in tutte le rivoluzioni della modernità, reiterava in realtà la stipula di un patto fratriarcale. Ma quel taglio implicava anche, dall’altro lato, una concezione della soggettività politica assai diversa da quella del «discorso del sovversivo» sessantottino5. Se da quel discorso noi donne prendemmo le distanze fu in primo luogo per questo: perché la soggettività rivoluzionaria, razionale e volitiva, eroica ed euforica, lasciava fuori, del soggetto (femminile e non solo), troppe dimensioni: corpo e affetti, vulnerabilità e dipendenze inconfessate, desideri censurati, traumi rimossi, sintomi muti, passività e impotenze, ripetizioni impedienti per l’efficacia dell’azione trasformatrice, bisogni di autorizzazione simbolica ineliminabili con la contestazione delle autorità costituite. Una materia corporea e psichica decisiva nella vita individuale e sociale, che il materialismo del ‘68 non strappa alla rimozione in cui giace nella razionalità moderna e abbandona a se stessa nella deriva dissolutoria del paradigma postmoderno, e che il femminismo porta invece alla luce della presa di coscienza e della politicizzazione.

È su questo deficit sessantottino di analisi del soggetto, non su un eccesso di soggettivismo narcisista e impolitico, che passa la contromossa neoliberale. Che del soggetto vede invece, e cattura, tutte le dimensioni – corpo e mente, volontà e desiderio, razionalità e inconscio – investendolo nell’interezza della sua esistenza con gli imperativi della prestazione, dell’autoimprenditorialità e della competizione, e piegandone al codice economico le istanze politiche di libertà e autogoverno. Non c’è qui alcuna «realizzazione» del soggetto e del progetto del ‘68, né tanto meno del soggetto e del progetto femminista: c’è al contrario la loro sussunzione spoliticizzata nella logica della produzione e del mercato, attraverso un dispositivo di soggettivazione incentrato, crucialmente, non sull’imposizione ma sulla condivisione degli imperativi suddetti. La semantica sessantottina del desiderio, dell’autoaffermazione, dello sfondamento dei limiti del possibile diventa la leva di una «ultra-soggettivazione», com’è stata chiamata, basata sull’estrazione congiunta di plusvalore e plus-godimento: produrre sempre di più godendone sempre di più, in una continua sfida al superamento di sé che performa e rilancia le ingiunzioni del sistema, sotto il vessillo di una libertà capovolta, ossimoricamente, in norma disciplinante6. Non rifiuto ma culto del lavoro, non dialettica desiderio/legge ma imperativo prestazione/godimento, non politicizzazione del personale ma valorizzazione di sé in quanto «capitale umano», non relazione e condivisione ma concorrenza e competizione, non libertà politica ma libertà d’intrapresa obbligatoria, non critica dei saperi ma acquisizione di competenze, non sprigionamento ma gestione degli affetti e dei sentimenti, non scavo autocoscienziale nelle profondità dell’inconscio ma gestione degli investimenti effettuati sulla superficie produttiva dell’io, non pratica del conflitto ma adattamento all’ambiente: nella cattura neoliberale la centralità politica della soggettività subisce una radicale, e antipolitica, rotazione di senso.

La versione completa in È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68 (ombre corte, 2018), a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino.

Note

Note
1Si vedano gli articoli dei principali giornali europei e americani dell’epoca ripubblicati da «Internazionale» nello speciale «1968» dedicato al cinquantenario, aprile 2018.
2M. Fisher, Realismo capitalista, NERO, Roma 2018.
3Cfr. M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, e in replica il mio Eredi al tramonto. Fine della politica e politica della differenza, in M. Tronti et al., Politica e destino, Sossella, Roma 2006. Un confronto indiretto fra Tronti e Toni Negri sul ’68 si trova nei loro rispettivi interventi nel fascicolo speciale sui trentacinque anni del «manifesto» (a cura di M. Bascetta, I. Dominijanni, S. Giorgi) allegato a «il manifesto», 28/4/2006. Fra le altre posizioni «revisioniste» cfr. V. Magrelli, Il ‘68 realizzato da Mediaset, Einaudi, Torino 2011; M. Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato, Mimesis, Milano 2011; M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012. Cfr. inoltre L. Cavallaro, Berlusconi, il Grande Altro e il ‘68, in «il manifesto», 2 marzo 2010, e in replica gli interventi della sottoscritta («il manifesto», 2 marzo 2010), di R. Gagliardi («il manifesto», 23 aprile 2010) e di G. Prestipino («il manifesto», 13 maggio 2011).
4L. Muraro, Non si può insegnare tutto, a cura di R. Fanciullacci, La scuola, Brescia 2013.
5Rubo l’espressione «discorso del sovversivo», sia pure con intenti diversi dall’autore, a P. Godani, Senza padri, DeriveApprodi, Roma 2014.
6Dell’«ultra-soggetto» (o «neo-soggetto») neoliberale scrivono P. Dardot e Ch. Laval, La nuova ragione del mondo, trad. it. DeriveApprodi, Roma 2013. Cfr. inoltre M. Nicoli e L. Paltrinieri, It’s still day one. Dall’imprenditore di sé alla start-up esistenziale, in «Aut aut» 2017, n. 376; F. Chicchi e A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017.

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