Fallire con stile

Un libro di Teresa Macrì

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Francis Alys, Lada Kopeika Project (2014).

La formazione storico-artistica di Teresa Macrì va di pari passo con la sua formazione personale e politica – «il personale è politico», si diceva ai tempi della sua giovinezza, aforisma sul quale, nel corso dei decenni, non sembra aver cambiato idea e che nelle stesse pagine di Fallimento (Postmedia books, 2017) ad un tratto si incontra. Il primo importante fallimento con cui fa i conti è proprio un fallimento personale-politico, quello del movimento del ’77. Esso «mantenne per alcuni mesi una notevole densità politica e una dimensione di massa, avvinghiato com’era ad una composizione sociale in larga parte inedita, poiché metteva in moto un ritorno all’Università di giovani, studenti ex studenti, lavoratori, precari, emarginati occupandone a tempo illimitato le sedi di alcune città».

La sua «potenzialità radicale era racchiusa nel suo radicamento in un soggetto sociale determinato, complesso e contraddittorio e già allora in forte espansione», quello studentesco. Il suo retroterra fondamentale è composto infatti da un milione di studenti universitari «di cui larga parte era attiva a rifiutare la contro-riforma universitaria proposta dal governo Andreotti». Per la Macrì è questo innanzi tutto, e non solo la questione «dello scontro con lo Stato e il Pci», ad innescare il ‘77 e credere il contrario «vuol dire commettere lo stesso errore politico che commise allora una parte del movimento». Così esso «fu disgregato dalla massiccia azione repressiva statale» tesa in primis a «costringerlo ad entrare nella spirale di azione e reazione permanente con le forze dell’ordine, spostando la sua dimensione creativa e antagonista all’organizzazione anti-repressiva».

L’ iniziazione personale-politica della giovane Teresa è alla radice della maturazione del suo profilo di critica d’arte, curatrice indipendente e scrittrice. Critica della verbalizzazione, così come della visualizzazione, dunque – come direbbe Jean-Christophe Ammann – ma forse negli ultimi tempi più a suo agio con la verbalizzazione – pur avendo curato molte mostre e di qualità – in quanto probabilmente è quest’ultimo settore a conservare meglio quell’indipendenza il cui modello resta per lei Harald Szeemann «curatore deviante e solitario, battitore libero». Una personalità «distante anni luce, per sentimento e per attitudine, dal curatore d’assalto attuale, imborghesito da un ruolo sempre più gerarchizzato e ingrigliato negli schemi consumistici dell’arte. Un passaggio epocale nella storia della curatela, poiché traslittera il potere dell’idea al potere dell’autorità» – non si tralasci di cogliere tra le righe, in questo attacco al critico della visualizzazione contemporaneo, una conferma della maggiore libertà che negli ultimi tempi, almeno relativamente alle sue esigenze, l’autrice sembra trovare nella critica della verbalizzazione.

Del resto la Macrì tiene a definirsi non di meno scrittrice perché la sua scrittura non è mero strumento subordinato alla enunciazione di una teoria o alla descrizione di opere, ma dimostra di possedere un valore in sé. La teoria e le opere infine: ella rifugge – lo si è ben capito – la piattezza teorica di tanta critica contemporanea, che trasforma il suo soggetto – sia della verbalizzazione che della visualizzazione – in un testimonial di passioni tristi e riduce l’arte – se non l’artista stesso – ad un altrettanto triste condizione di merce in vetrina, fastidiosamente ammiccante al suo prossimo – ché il prossimo in questo caso è sempre e solo inteso come un potenziale consumatore – ma crede fermamente nella necessità di un inquadramento teorico che non faccia a meno di mettere a confronto lo specifico della questione artistica con le altre discipline: dalla filosofia alle scienze sociali, dalla politica alla psicoanalisi. Nello stesso tempo non commette l’errore di mortificare la specificità delle opere – e degli artisti – sotto i colpi di teorie a priori, ma, come appare destreggiarsi perfettamente tra i pensieri dei teorici di cui fa uso, così – ed ancor più – dimostra di essere dentro le singole opere e le poetiche generali degli artisti che sceglie di analizzare. Se da una parte ciò è frutto di una costante, pluridecennale frequentazione delle maggiori mostre e biennali nazionali ed internazionali, dall’altra tale bagaglio – che dovrebbe essere una condicio sine qua non – appare sempre più prezioso nell’ambito delle Accademie di Belle Arti, ove sempre più spesso critici ed artisti trovano un’attività sostitutiva, piuttosto che integrativa rispetto alla pratica nel campo artistico.

Marcel Broodthears, La Pluie (Project pour un texte), 1969, videostill © Marie-Puck Broodthears e Galerie Erna Hécey, Bruxelles.

A partire dagli anni Novanta la Macrì dà prova di saper cogliere il presente dell’arte e di saper offrire una visione d’insieme all’altezza attraverso molteplici attività, benché due libri in particolare restino, a mio parere, a testimoniare di tali meriti: Il corpo postorganico (1996) e Postculture (2002). Il primo rimane probabilmente uno dei migliori tentativi italiani di registrate e leggere l’emersione nel mondo dell’arte contemporanea – specie attraverso il genere della performance – dei motivi del postumano, dell’ibridazione tra organico ed inorganico, dell’ingegneria genetica, nonché le connesse implicazioni politiche e sociali, uno dei principali motivi dell’arte contemporanea degli anni Novanta, in quanto parte di un fenomeno ben al di là dell’arte stessa. Il secondo esplora parimenti il versante artistico di un’altra tematica simbolo del medesimo decennio, quella della decolonizzazione vissuta come ricostruzione identitaria, da cui hanno origine gli studi postcoloniali e dunque l’irruzione nel mondo dell’arte contemporanea di artisti provenienti da ex colonie occidentali, Africa ed America Latina. Lo studio che precede immediatamente quello in esame è invece Politics/Poetics (2014), dedicato all’analisi e alla fusione dei due concetti di politica e poetica all’interno dell’opera d’arte, operazioni messe in atto esplorando le ricerche dei due artisti come Jeremy Deller e Francis Alÿs, uniti dall’anticonvenzionalità del comportamento e dalla vocazione alla decostruzione semantica. Questi ultimi compaiono anche tra i numerosi protagonisti di Fallimento.

Ma perché il fallimento? E cos’è realmente? Abbiamo già individuato nella biografia dell’autrice l’origine della sua irresistibile attrazione per tale nozione – una frattura dal respiro necessariamente generazionale e dal carattere irrimediabilmente, ribadisco, personale-politico. Il fallimento della prospettiva rivoluzionaria di allora genera però la società odierna, ove ragionare di fallimento diviene quasi tabù. Essa è infatti strutturata «sulla compulsione performatica, sulla proliferazione dell’ego e sull’inseguimento del successo personale confezionato sul consenso». Essa «si è arresa al conformismo poiché terrorizzata della possibile sconfitta e della sola ipotesi della perdita del mondo». Il fallimento è invece «irruzione improvvisa del nulla nel pieno dell’esistenza e sperimentarlo significa iniziare a vedere le lacerazioni del tessuto dell’essere. Esso si impone e agisce fortemente nella vita psichica del soggetto e ne condiziona il suo stare al mondo».

Come si colloca inoltre il fallimento in rapporto all’arte? «La storia dell’arte è una concatenazione di voli e cadute, di accensioni e sprofondamenti, di conquiste e crolli. Tra questi sommovimenti si interpongono delle intermittenze, degli interregni dialettici che provano a tessere nuovamente la relazione tra l’io e il mondo. Il fallimento è la condizione necessaria al moto del pensiero perché lo mina nelle sue certezze e lo potenzia insinuando il dubbio e l’inquietudine. Da ciò il senso vitalistico e rigermogliante che, in questo spazio, si vuole attribuire all’idea di fallimento, vissuto come eventualità dell’agire e come condizione di rilancio dell’esperienza. Esso, infatti, appartiene già alla scrittura dell’opera poiché è il vettore di vulnerabilità sia dell’intenzionalità dell’artista che del suo fare. E, in quanto tale, elemento di disordine della sua progettualità».

Nel contempo però «il fallimento è un’enunciazione di libertà poiché spinge alla riprogettazione e alla riedificazione dell’opera. Esso si dirama in articolazioni molteplici e si annoda a formazioni discorsive. Il fallimento è generato da mondi eterogenei e imperscrutabili, iperreali, metafisici o più semplicemente pragmatici, sguscia da utopie inconfessabili, da aspettative insolute, da illusioni e da perimetrie imperfette. Si arrotola lentamente, da illusioni e da perimetrie imperfette e con essa convive fino al punto in cui si annuncia mutevolmente».

Superflex, Burning Car, 2008 © Superflex e Peter Blum Gallery, New York.

Questi dunque i presupposti dai quali passare in rassegna una ricca carovana non solo di artisti ed opere del fallimento, ma anche di mostre. La Biennale di Tirana del 2005, ad esempio, intitolata Sweet Taboos e dedicata «ai tabù della sfera sociale»; l’anno successivo (2006), all’interno di Monumentum in Norvegia, si tiene Try Again. Fail Again, Fail Better; meno di un anno dopo (2007) la Kunsthaus di Berna ospita The Art of Failure; più di recente (2013), infine, la Hamburger Kunsthalle di Amburgo apre Fail Better, Moving Images. Tra gli artisti si va da Cesare Pietroiusti e il suo discorso sulla non funzionalità riscattata al rischio annunciato di Chris Burden e dell’ «icona rock planetaria» Iggy Pop o anche di Maurizio Cattelan, con la sua pratica di interruzione dell’intenzionalità creativa, culminata peraltro nel 2011 con l’annuncio del suo ritiro; dagli esponenti del fallimento come ripetizione ossessiva, quali Bruce Nauman, Andy Warhol, John Baldessari o Bas Jan Ader, fino a Tacita Dean o il duo Fischli & Weis, di più giovane generazione, a quelli del fallimento come utopia, rappresentato in questa occasione innanzi tutto da Szeemann, ma anche – ed ancora – da Iggy Pop e da Deller, come accennato già coprotagonista del volume precedente della Macrì insieme ad Alÿs.

Quest’ultimo è invece tra i maggiori artefici del fallimento come metafora straniante, insieme a Walter De Maria ed al più giovane Francesco Arena. Vi è infine il fallimento come antagonismo produttivo, incarnato da personaggi quali Sislej Xhafa, i Superflex ed Harmony Korine. «Solo le grandi menti emancipate (artisti, poeti, scienziati, scrittori) e con un intenso bagaglio esperienziale hanno l’ardire di […] commettere e scommettere sul fallimento delle proprie idee. Convivono con esso e da esso decollano, nello spleen dell’anarchia creativa, per azzardi utopistici, scarti semantici e paradossi filosofici. Attraverso esso si divincolano dall’eccessiva schematicità dell’art system e si addebitano lo schianto in un abisso o la ascesa tra gli astri. Per queste precise motivazioni tale introiezione è spesso ignorata dal fare artistico della generazione Millennals e Post-Millennals più avvezzi ad un autocompiaciuta e compiacente immagine del proprio mondo immaginario, quello sempre più social e sempre meno sociale, spesso incuneati in un allineato conformismo e spesso impregnati in un rischio fin troppo calcolato».

Ciò che colpisce infatti in quest’ultimo libro della Macrì è non dico l’assenza totale di artisti Millennals e Post-Millennals, ma proprio di artisti nati dopo il 1980. La sua constatazione sulle nuovissime generazioni, d’altra parte, se appare di per sé assai fondata – e se si considera la sua attività di insegnante in Accademia di Belle Arti tanto più acquista autorevolezza – proprio in ragione del suo colpire del segno reclama una spiegazione. Non vi sarà forse una connessione – azzardo una domanda molto scomoda, me ne rendo conto, non solo per l’autrice ma per tutti coloro che operano e ancora credono fermamente nel valore progressivo delle arti visive e dell’arte in generale – tra l’aver affidato l’opposizione ad una società fondata «sulla compulsione performatica, sulla proliferazione dell’ego e sull’inseguimento del successo personale confezionato sul consenso» esclusivamente all’arte come separazione dagli altri ambiti vitali – e non, come invece, nello spirito del ’77, all’arte e alla creatività in genere come incursione nella vita quotidiana – e l’ «allineato conformismo», ed il «rischio fin troppo calcolato» dei Millennals e Post-Millennals, artisti o meno che siano?

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