Impresa, desiderio, ricchezza

L'anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia

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Nicole Gravier, Prima di passare alla Upim. Mythes et Clichés. Fotoromanzi, serie Attesa, 1976-80, collage su fotografia, cm 30x40

Nella sua accezione rinascimentale e umanistica, con la parola impresa si intende l’attività che si organizza per dare al mondo la sua forma umana. L’impresa dell’artista rinascimentale è il segno e la condizione dell’indipendenza della sfera umana dal fato e dalla volontà divina. Nel pensiero di Machiavelli l’intrapresa è tutt’uno con la politica, che si emancipa dalla fortuna e pone in essere la repubblica, spazio nel quale le volontà umane costruiscono e confrontano la loro astuzia, la loro capacità di creazione.

Nella sua accezione capitalistica la parola impresa acquista nuove coloriture, pur non perdendo il senso di azione libera e costruttiva. E le nuove coloriture stanno tutte nella opposizione tra impresa e lavoro. L’impresa è invenzione e azione libera. Il lavoro è ripetizione e azione esecutiva. L’impresa è investimento di capitale che produce nuovo capitale, grazie alla valorizzazione che il lavoro rende possibile. Il lavoro è prestazione salariata, che valorizza il capitale ma svalorizza il lavoratore. Cosa resta oggi dell’opposizione tra lavoratori e impresa, e come si sta modificando la nozione di impresa, la sua percezione nell’immaginario sociale?

Impresa e lavoro sono sempre meno opposte nella percezione sociale, e nella coscienza stessa dei lavoratori cognitivi, cioè nella coscienza di quell’area che esprime il più alto livello di produttività e la più alta capacità di valorizzazione e che incarna la tendenza generale del processo lavorativo sociale. Chi svolge un lavoro ad alto contenuto cognitivo, e quindi a bassa intercambiabilità, non oppone il suo lavoro alla creazione di impresa; al contrario tende a considerare il suo lavoro, anche quando è dipendente dal punto di vista formale, come l’impresa a cui dedicare le migliori energie, indipendentemente dalla dimensione economica, giuridica in cui si estrinseca.

L’impresa (indipendentemente dalla relazione giuridica tra proprietà e lavoro) tende a essere il nucleo intorno a cui si addensa il desiderio, l’oggetto di un investimento non più solo economico ma psichico 

Per capire questo mutamento nella percezione dell’impresa occorre tenere conto di un fatto decisivo: mentre il lavoratore industriale metteva nella prestazione salariata le sue energie meccaniche, secondo un modello ripetitivo, spersonalizzato, il lavoratore high tech impegna nella produzione la sua competenza singolare, le sue energie comunicative, innovative, creative, in breve il meglio delle sue capacità intellettuali. Di conseguenza l’impresa (indipendentemente dalla relazione giuridica tra proprietà e lavoro) tende a essere il nucleo intorno a cui si addensa il desiderio, l’oggetto di un investimento non più solo economico ma psichico. Solo se teniamo conto di questo riusciamo a spiegarci perché, negli ultimi due decenni, la disaffezione e l’assenteismo sono diventati fenomeni del tutto marginali, mentre erano diventati l’elemento decisivo nella relazione sociale dell’epoca tardo-industriale.

Le ricerche svolte da Juliet Schor (The overworked american) dimostrano che negli anni Ottanta (e ancor più, sappiamo, negli anni Novanta) il tempo di lavoro medio è aumentato in maniera impressionante. Il lavoratore medio ha prestato 148 ore in più nel 1996 di quanto avesse fatto un suo collega nel 1973. La percentuale di persone che lavorano più di 49 ore alla settimana è aumentata dal 13% nel 1976 a quasi il 19% nel 1998, secondo il US Bureau of Labor Statistics. Per quanto riguarda i manager, poi, la percentuale è salita dal 40% al 45%. Le previsioni che lo sviluppo delle tecnologie informatiche, favorendo l’automazione, determinassero una riduzione del tempo di lavoro sociale, si sono rivelate vere e false al tempo stesso, ma in ultima analisi false.

È vero infatti che il tempo di lavoro necessario diminuisce nella sfera della produzione industriale, e di conseguenza è vero che un numero crescente di posti di lavoro industriale vengono liberati, sostituiti da macchinari o trasferiti nelle zone del mondo in cui il lavoro operaio costa pochissimo e non è sindacalmente protetto. Ma è anche vero che il tempo apparentemente liberato dalle tecnologie viene trasformato in cibertempo, tempo di lavoro mentale assorbito dal processo di produzione illimitata del ciberspazio. Come si spiega la conversione dei lavoratori dalla disaffezione all’adesione?

Certamente si spiega con la sconfitta politica che la classe operaia ha subito dopo la fine degli anni Settanta, a causa della ristrutturazione tecnologica, della disoccupazione che ne è seguita e della repressione violenta contro le sue avanguardie. Ma questo non basta.
Per comprendere a fondo il cambiamento psicosociale verso il lavoro, occorre tenere conto di un mutamento culturale decisivo, che è collegato con lo spostamento del baricentro sociale dalla sfera del lavoro operaio alla sfera del lavoro cognitivo. Cosa succede infatti nell’ambito del lavoro cognitivo? Perché questo tipo nuovo di lavoratore considera il lavoro come la parte più interessante della sua vita, e non si oppone quindi più al prolungamento della giornata di lavoro, anzi tende a prolungare il tempo di lavoro per propria decisione e volontà?

La risposta a questa domanda deve tener conto di molti fattori, alcuni dei quali difficili da analizzare in questo contesto. Per esempio, negli ultimi decenni la comunità sociale e urbana ha perso progressivamente interesse, e si è ridotta a un involucro morto di relazioni senza umanità e senza piacere. La sessualità e la convivialità sono state progressivamente trasformate in meccanismi standardizzati omologati e mercificati, e al piacere singolare del corpo è stato progessivamente sostituito il bisogno ansiogeno di identità. La qualità dell’esistenza si è deteriorata dal punto di vista affettivo e psichico in conseguenza della rarefazione del legame comunitario e della sua sterilizzazione securitaria.

Sembra che nella relazione umana, nella vita quotidiana, nella comunicazione affettiva si trovino sempre meno piacere e sempre meno rassicurazione. Una conseguenza di questa diserotizzazione della vita quotidiana è l’investimento di desiderio nel lavoro, inteso come unico luogo di conferma narcisistica per una individualità abituata a concepire l’altro secondo le regole della competizione, cioè come un pericolo, un impoverimento, una limitazione, piuttosto che come esperienza, piacere e arricchimento. L’effetto che si è determinato nella vita quotidiana, durante gli ultimi decenni, è quello di una desolidarizzazione generalizzata. L’imperativo della competizione è diventato dominante nel lavoro, nella comunicazione, nella cultura, attraverso una sistematica trasformaizone dell’altro in concorrente e quindi nemico.

Cosa vuol dire ricchezza? 

Come mai dopo un lungo periodo di rifiuto del lavoro e di autonomia sociale, in cui nella società la solidarietà prevaleva sulla competizione e la qualità della vita sull’accumulazione di potere e di denaro, il lavoro ha potuto riacquistare una posizione centrale nell’immaginario, nella scala dei valori socialmente riconosciuti e nello psichismo collettivo?  

Ma non abbiamo ancora risposto alla nostra domanda: come mai dopo un lungo periodo di rifiuto del lavoro e di autonomia sociale, dopo un lungo periodo in cui nella società la solidarietà prevaleva sulla competizione, e la qualità della vita prevaleva rispetto all’accumulazione di potere e di denaro, il lavoro ha potuto riacquistare una posizione centrale nell’immaginario, nella scala dei valori socialmente riconosciuti e nello psichismo collettivo? Perché una parte così ampia dei lavoratori considera oggi il lavoro come la parte più interessante della vita e non si oppone più al prolungamento della giornata di lavoro, anzi tende a prolungare il tempo di lavoro per propria decisione e volontà? Questo è dovuto in parte al drastico peggioramento delle condizioni di protezione sociale provocato da trent’anni di deregulation e di smantellamento delle strutture pubbliche di assistenza, ma non è dovuto solo a questo.

Un aspetto decisivo sul piano antropologico è l’affermazione di un modello di vita interamente centrato sul valore della ricchezza, e la riduzione del concetto di ricchezza al suo significato economico e acquisitivo. L’identificazione della ricchezza con la proprietà non è affatto scontata.
Alla domanda «cos’è la ricchezza?» possiamo rispondere in due maniere del tutto contrastanti. Possiamo valutare la ricchezza in base alla quantità di beni e di valori che possediamo, oppure possiamo valutare la ricchezza in base alla qualità di godimento che l’esperienza è in grado di produrre nel nostro organismo sensibile. Nel primo caso la ricchezza si identifica con una quantità oggettivata, nel secondo caso si identifica con la qualità soggettiva dell’esperienza. Il denaro, il conto in banca, l’arricchimento economico non sono l’unico fattore della riaffezione al lavoro che domina la scena psichica ed economica degli ultimi vent’anni. Ma certamente ne sono un fattore decisivo. L’ideologia economicista è ossessivamente centrata sulla convinzione che l’affezione al lavoro si traduce in denaro, e che il denaro fa la felicità. Il che è vero solamente in parte.

Ripetiamo la domanda: che cosa vuol dire ricchezza? L’unica risposta di cui dispone il discorso economico è, naturalmente, una risposta economica: ricchezza è la disponibilità di mezzi che ci permettono di consumare, è disponibilità di denaro, di credito, di potere. Ma si tratta di una risposta povera, parziale, forse addirittura di una risposta completamente sbagliata, che produce miseria per tutti, anche per chi riesce ad accumulare molto. Questa risposta concepisce la ricchezza come proiezione di tempo accumulato a guadagnare potere di acquisizione e di consumo, oppure come capacità di godimento del mondo disponibile: tempo, concentrazione e libertà.

Quanto più tempo dedichiamo all’acquisizione di mezzi per poter consumare, tanto meno tempo ci rimane per poter godere del mondo disponibile. Quanto più investiamo le nostre energie nervose nell’acquisizione di potere d’acquisto, tanto meno possiamo investirle nel godimento 

Naturalmente queste due definizioni di ricchezza confliggono. Ma non confliggono solo le definizioni. Si tratta proprio di due modalità diverse del rapporto con il mondo, con il tempo, con il corpo. Quanto più tempo dedichiamo all’acquisizione di mezzi per poter consumare, tanto meno tempo ci rimane per poter godere del mondo disponibile. Quanto più investiamo le nostre energie nervose nell’acquisizione di potere d’acquisto, tanto meno possiamo investirle nel godimento.
È intorno a questo problema, completamente ignorato dal discorso economico, che si gioca la questione della felicità e dell’infelicità nella società ipercapitalistica. Per avere più potere economico (più denaro, più credito) occorre prestare sempre più tempo al lavoro socialmente omologato. Ma questo significa che occorre ridurre il tempo di godimento, di esperienza, in poche parole di vita.

Si tratta di una questione banale, elementare, che dovrebbe essere alla portata di ogni intelligenza semplice. E invece la convergenza tra lo psichismo securitario, represso e ansioso, e il discorso ideologico dell’economia ha trasformato questa ovvietà in un mistero imperscrutabile, al quale possono avere accesso soltanto deracinés emarginati e rampolli di famiglie miliardarie. La ricchezza intesa come godimento diminuisce proporzionalmente all’aumento della ricchezza come accumulazione economica, per la semplice ragione che il tempo mentale viene destinato ad accumulare piuttosto che a godere. D’altra parte la ricchezza intesa come accumulazione economica aumenta quando si riduce il piacere dispersivo del godimento, e di conseguenza il sistema nervoso sociale viene sottoposto a una contrazione e a uno stress senza i quali non può darsi accumulazione.

Ma le due prospettive si risolvono in un medesimo effetto: l’espansione della sfera economica coincide con una riduzione della sfera erotica. Quando le cose, i corpi, i segni entrano a far parte del modello semiotico dell’economia, l’esperienza della ricchezza può compiersi soltanto in maniera mediata, riflessa, rinviata. Come in un gioco di specchi infinito, nel quale ciò che si vive davvero è la produzione di scarsità, di bisogno, compensata da un consumo veloce, colpevole e nevrotico, perché non si deve perder tempo, occorre tornare al lavoro. La ricchezza allora non è più godimento nel tempo delle cose, dei corpi e dei segni, ma produzione accelerata ed espansiva della loro mancanza, trasformata in valore di scambio, trasformata in ansia.

A questo punto possiamo rispondere alla domanda: come mai il lavoro ha riacquistato un posto centrale nell’affettività sociale, e perché la società si è riaffezionata al lavoro? Il capitalismo liberista ha talmente devastato la socialità che i lavoratori sono costretti ad accettare il ricatto primordiale: o morire o lavorare quanto e come vuole il padrone. Ma c’è una seconda risposta da dare, e riguarda l’impoverimento della vita quotidiana, della relazione con l’altro, la diserotizzazione dell’esperienza comunicativa.
Non solo l’impoverimento materiale derivante dal crollo delle garanzie sociali, ma anche l’impoverimento dell’esistenza e della comunicazione è causa della riaffezione al lavoro. Ci si riaffeziona al lavoro perché la sopravvivenza economica diviene più difficile, e perché la vita metropolitana diviene talmente triste che tanto vale scambiarla con denaro.

da Franco Berardi Bifo, L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia, collana OPERAVIVA, DeriveApprodi

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