La mostra «Modernità Non Allineata» indaga un modello estetico-politico che ricostruisce la cornice socialista della Modernità nei sui differenti assetti e con uno sguardo non-allineato, di benjaminiana memoria in cui «l’unico scrittore >…
La traduzione come lotta
Nulla da completare: qualcosa da cominciare
Il divario Est Ovest non è obsoleto. L’egemonia è ancora intatta, un’egemonia dell’Ovest nello stabilire la direzione. Ciò che è mutato è il modo in cui ci rapportiamo a ciò. Intrappolato nel processo di transizione, l’Est ha tradotto se stesso nell’idioma dell’ovest cercando disperatamente di ottenere l’impossibile – l’autenticità dell’originale. Ma una traduzione non è questo.
Nessuna rivoluzione può evitare la propria retoricità. Ma non tutte le rivoluzioni sono soffocate in una retoricità che non è neppure la loro. Questo è precisamente ciò che è accaduto alla rivoluzione che un tempo era generalmente chiamata «democratica» e che si credeva avesse posto fine all’epoca dei totalitarismi: la rivoluzione, o meglio, le rivoluzioni del 1989/1990, meglio conosciute con l’etichetta più descrittivo di «caduta del comunismo». Si credeva che l’evento – così almeno credevano quelli che realizzarono il vero cambiamento sul campo – avrebbe segnato un nuovo inizio. Eppure non c’era niente di nuovo negli scopi che voleva ottenere. Democrazia, diritti umani, il libero mercato, uno spazio pubblico aperto, questi ed altri valori simili erano già esistiti come parte di una realtà quotidiana – ma in un altro luogo, in quello che era chiamato ovest.
Divenire Est
Così, la rivoluzione era localizzata culturalmente. Non solo era accaduta nell’Est ma era accaduta a causa dell’Est. E in questa specificità risiedeva l’intero significato storico di quest’evento. Già nel 1990 il filosofo liberale tedesco Jürgen Habermas ha definito questa sequenza storica come «rivoluzione recuperante»1. Secondo la sua linea di argomentazione, il ribaltamento dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est ha spianato la strada all’espansione della modernità in quell’area, un’espansione che era stata bloccata per decenni dai governi totalitari. Pertanto egli l’ha chiamata una «rivoluzione rewind» (riavvolgente), una metafora che chiaramente evoca una macchina del tempo e suggerisce che le rivoluzioni democratiche del 1989-90 abbiano riportarono indietro la storia recente a quel momento che ha preceduto l’arrivo del comunismo. In questo modo, il «normale» sviluppo modernista, che era stato violentemente interrotto dalle dittature comuniste, avrebbe potuto ora riprendere il proprio corso. In sintesi, il significato di questo evento sarebbe stato da trovare nella possibilità per l’est di mettersi al pari col progetto dello sviluppo moderno. Ovviamente, la modernità in gioco è quella occidentale, il che, in un modo abbastanza curioso, non la rende culturalmente particolare. Al contrario, il modo in cui la modernità occidentale comprende se stessa suggerisce un ambizione e un conseguimento universali, in cui la «modernità» occidentale è concettualizzata come modernità in senso assoluto.
Al contrario, la nozione di «est» non implica valori universali. Di fatto non implica alcun valore se partiamo dal presupposto che il suo significato sia definito esclusivamente dalle sue relazioni con l’ovest. Antonio Gramsci era pienamente consapevole che le nozioni sia di «est» che di «ovest» erano costruzioni storico-culturali completamente arbitrarie, convenzionali, che avevano poco o nessun significato al di fuori della storia reale, «dove ciascun punto sulla terra è est e ovest allo stesso tempo»2. Ora, precisamente quando si arrivò alle trasformazioni sociali e politiche che diedero origine a questa storia reale, Gramsci era pronto, allo stesso modo, a invocare la semplice giustapposizione che Habermas avrebbe usato più di cinquant’anni dopo, in cui l’est veniva compreso alla stregua di una controparte tardiva degli sviluppi storici dell’ovest. In ogni caso, come ci potremmo aspettare, Gramsci non accusava il comunismo di questo ritardo. Piuttosto individuava la genealogia di questo problema nell’arretratezza della Russia zarista. Pertanto, l’idea di «un normale sviluppo storico», che avrebbe potuto essere interrotto, per esempio dalla forza di volontà ideologica, e pertanto posto in ibernazione per decenni solo per essere riavvolto e risviluppato correttamente alcuni anni più tardi, gli era completamente estranea. Com’è noto, Gramsci ha sviluppato un’intera teoria per spiegare questo problema che si rifletteva storicamente nel fallimento traumatico della rivoluzione socialista all’ovest e il rispettivo successo all’est (l’arretrata Russia zarista) – la teoria dell’egemonia.
Secondo questa teoria, il governo della borghesia sulla classe lavoratrice si basa sul consenso, non solo sulla coercizione. Dobbiamo ricordare che per Gramsci ci sono due modi – nota bene, non mutualmente esclusivi – di sfidare l’egemonia: una «guerra di posizione» e una «guerra di manovra»3. Mentre la prima può venire messa in atto nell’ovest, dove c’è una forte società civile, la seconda può ottenere successo all’est dove, come scrive Gramsci, «lo stato è tutto». All’est la società civile è ancora sottosviluppata, è «primordiale e gelatinosa» e pertanto non offre il terreno per un governo della borghesia sulle classi sfruttate. Il potere di governo è piuttosto concentrato nell’apparato, dalla capacità coercitiva, dello stato, e spesso esercitato con forza bruta. Per contro, il potere in occidente è radicato in una società civile ben sviluppata. La struttura di dominazione dello stato è solo una trincea di avanguardia della fortezza della borghesia i cui veri bastioni sono costituiti dalla cultura, ovvero dalle forme culturali della persuasione a cui le classi sfruttate partecipano attivamente. Non si può prendere il controllo di queste sfere e di questi meccanismi con la forza. Al contrario, devono essere sovvertiti dagli stessi strumenti culturali che utilizzano.
Nati per essere occidentalizzati
A prescindere dal modo in cui possiamo infine definire la differenza tra l’est e l’ovest come un divario tra modernità avanzata e la sua controparte storicamente «ritardata» o semplicemente come un effetto di uno sviluppo impari che è intrinseco alle modalità della produzione capitalista (che riproduce costantemente la differenza tra centro e periferia), il materiale di cui questa differenza è fatta e i mezzi con cui sfidarla sembrano essere esclusivamente culturali. Stiamo parlando di una differenza culturale e dovremmo affrontare criticamente questo soggetto come tale. Questo è il punto su cui Gramsci e Habermas sono concordi. Inoltre la reale egemonia dell’ovest, così come può essere ravvisata nelle sue diverse espressioni, sembra essere d’accordo con loro nell’interpretare le «rivoluzioni democratiche del 1989-90» allo stesso tempo come il risultato di, e un rimedio per, il ritardo storico (che è ritardo culturale) nelle società ex-comuniste. Questo è in particolare il caso del cosiddetto regime «di transizione verso la democrazia» che l’ovest ha imposto all’est «post-comunista», così da salvare l’est da se stesso.
In modo curioso, la lente con cui l’ovest egemonico ha interpretato la transizione post-comunista ha seguito un classico modello gramsciano. In larga parte, l’est è visto come la vittima storica sia di uno stato eccessivamente forte o violento, sia di una società civile debole e sottosviluppata. Seguendo questa interpretazione la «transizione verso la democrazia» circa la redenzione nel mitigare il primo – portando l’apparato statale sotto il controllo democratico, per esempio – con un rafforzamento della seconda. Infatti ciò non è che una replica il paradigma principale dell’anticomunismo nell’ovest secondo cui l’intera realtà politica del comunismo storico era stata ridotta al cliché semplicistico e diminutivo di uno stato totalitario ideologicamente malvagio, in grado di terrorizzare il buon popolo, amante della libertà. A questo punto le differenze con Gramsci diventano chiare. Nel suo pensiero, la società civile non è un soggetto storico-politico in senso proprio, specialmente non un soggetto di buona volontà che dà luogo necessariamente ad una trasformazione progressiva. La società civile è piuttosto un campo di battaglia su cui la lotta per il cambiamento emancipatorio ha luogo – ovviamente nell’ovest dove si è sviluppata al meglio. In questo caso, l’idea di un est essenzialmente retrogrado, cronicamente tardivo e sottosviluppato rimane invariata. Solo la retorica è nuova, una retorica in cui l’est ora appare come popolato da soggetti politici e sociali immaturi. Questo diventa chiaro nel modo in cui il discorso sulla transizione post-comunista parla di democrazia nell’est post-comunista: deve «prendere lezioni», «muovere i primi passi», «crescere e svilupparsi », e poi «potrebbe ancora stare in fasce o soffrire di una malattia infantile», e così via4. Soprattutto questa è una strategia retorica che si basa sulla perpetrazione senza fine di una supposta immaturità e innocenza infantile dell’est, che pertanto necessita del paternalismo dell’ovest.
Con un rivolgimento impressionante l’alterità dell’est che un tempo era l’incessante minaccia della guerra fredda è divenuta ora un oggetto d’istruzione e cura – da nutrire nella rispettabile maturità dell’autocoscienza occidentale, in breve da occidentalizzare. Nei rapporti con l’est, l’ovest si è spostato da una «guerra di manovra» a una «guerra di posizione». Se meno di trenta anni fa l’ovest accatastava armi nucleari per bombardare l’est comunista e rispedirlo all’età della pietra, oggi lancia bombe a grappolo d’idee e concetti teorici sull’est con progetti culturali di breve e lungo termine, biennali intelligenti, curatori in trasferta e lo scatenarsi di valori democratici, intellettuali, estetici e via dicendo. Per provare a sospingere l’est nella contemporaneità – ovvero nell’ovest.
L’est post-comunista dovrebbe essere felice di questi nuovi sviluppi, di questi «partner» dalla faccia fresca dell’ovest interessati utilitaristicamente allo sviluppo culturale dei propri nemici? L’unico modo per iniziare a rispondere a questa domanda potrebbe essere quello di ricordarsi che c’è un alto prezzo, da entrambe le parti, da pagare per questo aiuto.
Sarebbe meglio dimenticare
Secondo il filosofo sloveno Rastko Močnik, il divario della guerra fredda è sopravvissuto al collasso del comunismo, innanzitutto per la sua funzione ideologica, ovvero derubare ciascuna parte, l’est e l’ovest, della propria storia5. Oggi, l’ovest appare emancipato non solo dalla propria storia ma dalla storia in sé. Questo è il motivo per cui può essere imposto come «generale» e «canonico».
In un contrasto necessario, l’est funziona come un meccanismo di amnesia il cui scopo è sbarazzarsi della storia e diventare in questo modo un non-spazio a-storico, allo stesso modo dell’ovest. Esso infatti ha una storia che, come scrive Močnik, «sarebbe meglio dimenticare», o, usando le parole di Jürgen Habermas, una storia che deve essere «riavvolta». Questo è precisamente quello che si dovrebbe avere in mente quando si affronta l’idea della «musealizzazione dell’est». Questo concetto presuppone come condizione stessa della sua possibilità, un oblio storico in cui l’intera storia recente dell’est è stata confinata. In questo senso, l’est può essere costruito come un museo solo dopo essere stato trasformato nella discarica della storia, dove le ideologie finite e i concetti politici del passato sono stati gettati e deprivati di qualsiasi esperienza storica. Solo un passato da cui nessuna lezione è stata appresa può essere culturalmente feticizzato in un museo. È per questa ragione che Močnik conclude che, non solo il divario tra est e ovest depreda entrambe le parti della loro storia comune, ma impedisce loro anche di condividere una storia in futuro: «li congela in un’eterna coppia impari, di cui una parte è per sempre condannata a lottare per disfarsi del fantasma del proprio passato mentre l’altra è costretta a un’infinita celebrazione autistica della propria idiozia».
Una parata della vergogna
È piuttosto facile dimostrare come questa differenza culturale cristallizzata tra ovest e est generi oblio storico e, allo stesso tempo, si perpetui da sola. Prendiamo ad esempio il noto caso delle «pride parade». Come è noto, nelle scorse decadi le marce della comunità LGBT sono diventate una parte integrante della cultura urbana nelle metropoli occidentali. Da San Francisco a Chicago, da New York a Londra, Parigi e Berlino, centinaia di migliaia di persone – o addirittura più di un milione come a Madrid – molte delle quali neppure appartenenti a minoranze sessuali partecipano a queste feste urbane per celebrare e condividere la cultura della tolleranza. Nell’Europa dell’Est l’immagine è piuttosto diversa. Se una «pride parade» è stata organizzata, a dispetto di tutti gli ostacoli e degli ostruzionismi, ci sono stati più poliziotti e personale di sicurezza sulle strade che partecipanti alla manifestazione. In alcuni casi, Belgrado torna alla memoria: vi sono esplosi scontri tra polizia e manifestanti, con il risultato che questi ultimi sono stati gravemente feriti6. Ancora più a est, le «pride parade» semplicemente non hanno luogo. A San Pietroburgo e Mosca sono bandite. E nel caso della capitale russa, questo divieto è stato esteso per i prossimi cento anni7.
Non è forse questa una chiara prova delle profonde differenze culturali tra l’est e l’ovest, come anche è suggerito dalle statistiche che dimostrano che l’omofobia è in costante ascesa man mano che ci addentriamo a est? E questo non conferma il bisogno di un’ulteriore occidentalizzazione dell’est: più «scuole di tolleranza», sostegno alle minoranze, supporto per progetti culturali che si occupano di diritti umani e, in breve, necessità di una società civile maggiormente sviluppata che sarà in grado di far pressione sullo stato e di conseguenza influenzare la legislazione e le decisioni politiche?
Ma quanto possiamo accelerare il processo di transizione? Quanto tempo ci vuole perché sia completo? Quando l’est si sarà sufficientemente messo al passo con l’ovest? Quando, infine, vedremo milioni di persone sulla Piazza Rossa sventolare bandiere arcobaleno? Tra cento anni? Piuttosto che fare supposizioni su un futuro impossibile da predire, dovremmo guardare alle nostre spalle ad un passato dimenticato. La domanda è semplice: è realmente vero che la liberazione sessuale e i successivi mutamenti delle relazioni di genere sono esclusivamente fenomeni dell’ovest, una svolta liberale nello sviluppo della modernità all’ovest che può essere ricondotta alla cosiddetta «rivoluzione sessuale» degli anni Sessanta? Le società ex-comuniste non hanno sperimentato qualcosa di simile?
In anticipo sui tempi
Per il politologo tedesco Bini Adamczak il fatto che la rivoluzione russa del 1917 ebbe inizio nel sesto anniversario della giornata internazionale delle donne lavoratrici è più di una coincidenza: «persone che, fino a quel momento, erano state considerate donne, indossarono i pantaloni, si tagliarono i capelli e afferrarono sigarette e pistole. Poco dopo conquistarono il diritto al divorzio – un documento scritto a mano era l’unica cosa necessaria a ottenerlo»8. Adamczak sottolinea che in tema di relazioni matrimoniali e di divorzio, la rivoluzione russa ha istituito il codice più progressista che il mondo moderno abbia mai conosciuto. Abolì le pene zariste contro l’omosessualità e legalizzò l’aborto. Nel 1922, una corte dei soviet stabilì che il matrimonio tra una donna cisgender e un uomo transgender era legale, indipendentemente dal fatto che fosse un matrimonio tra lo stesso sesso o transessuale. Adamczak conclude: «la rivoluzione russa non era solo in anticipo sul proprio tempo, ma anche sui nostri. È stata, in parte, una rivoluzione queer e femminista». Questo ovviamente esula dal concetto di un est arretrato. Inoltre mette in crisi e confuta la colpa attribuita ai comunisti per il freno posto alla modernità in senso occidentale.
Adamczak ricorda il modo in cui i delegati bolscevichi vennero accolti trionfalmente alla conferenza della lega mondiale per le riforme sessuali, co-fondata da Magnus Hirschfeld. La ragione, come è noto, era piuttosto ironica – era stata proprio la rivoluzione bolscevica che aveva introdotto i discorsi liberali della borghesi in tema di sessualità in Russia, dove le categorie di omosessualità, pseudo-ermafroditismo e travestitismo non erano esistite realmente prima della rivoluzione. Erano state infatti sviluppate e istituzionalizzate all’ovest, nel contesto delle scienze medico-biologiche e psichiatriche. La Russia zarista distingueva solo forme differenti di sessualità non riproduttiva, che erano punite secondo le leggi contro la sodomia. Dopo la rivoluzione, l’abolizione di queste leggi venne giustificata con la motivazione che gli omosessuali non erano peccatori o criminali ma semplicemente anomalie biologiche. Adamczak conclude esplicitamente che era stato il modello borghese occidentale ad essere importato in Russia dai bolscevichi.
Nel qual caso la rivoluzione bolscevica non solo non aveva bloccato l’espansione della modernità all’est, ma l’aveva agevolata, almeno nel senso in cui era stata in grado di mutare l’est in un ovest più occidentalizzato dell’ovest stesso. Ad ogni modo sappiamo molto bene come gli sviluppi emancipatori subirono un’inversione di tendenza solo una decade più tardi. Nell’Unione Sovietica di Stalin, l’aborto venne di nuovo proibito, furono reintrodotte leggi contro la sodomia e la famiglia nucleare riacquistò il proprio ruolo di cellula fondamentale dello Stato. Questo non sarebbe stato possibile se l’esperienza della rivoluzione non fosse stata distrutta prima, un’esperienza che aveva tenuto vivo un orizzonte di possibilità, in cui non solo «maschio» e «femmina» avrebbero potuto essere articolati nelle loro profonde ambiguità di genere, ma anche ogni momento della lotta per l’emancipazione avrebbe potuto essere «est» e «ovest» allo stesso tempo9.
Un criceto che avrebbe preferito di no
Cosa ci dice questa della situazione odierna? L’amnesia storica che secondo Močnik è intrinseca al divario tra est e ovest e depriva entrambe le parti della loro storia comune (impedendo loro allo stesso tempo di avere una storia futura comune), ha essa stessa una lunga storia che è allo stesso modo dimenticata. La si può far risalire all’emergere del terrore stalinista e allo sprofondare nel fascismo dell’Europa occidentale. È probabilmente nulla più che un sintomo di una rivoluzione fallita – o, come altri direbbero, di una vittoriosa controrivoluzione – ma le cui conseguenze hanno una lunga portata nel tempo. In un periodo che sembra ossessionato dal passato, da questa o quella forma di memoria culturale e di bene culturale, un periodo che Pierre Nora chiama addirittura «età della commemorazione», c’è un passato che è strutturalmente ignorato, un passato che una volta era chiamato storia e che si crede oggi esistere solo nei musei dove viene conservato accuratamente, accudito, archiviato, selezionato per mostre temporanee, ammirato e alla fine commercializzato. Infatti ciò che chiamano «est» è un museo della storia a cura dell’ovest. È radicato in modo discorsivo nell’ideologia della transizione post-comunista, la cui retorica determina l’intera dinamica di questo processo aperto in cui riprodurre costantemente relazioni di dominazione e controllo – ovviamente attraverso il consenso.
Tuttavia, c’è anche stata della resistenza. Una delle strategie articolate in modo migliore era quella dell’auto-est-ernizzazione. Consisteva nel riarticolare la nozione dell’est retrogrado in un contro-concetto a beneficio dell’ovest attraverso una sorta di sovra identificazione con un’identità imposta che era diventata un semplice tropo di esclusione e sottomissione. Poteva prendere la forma dell’ironica auto-canonizzazione di quel dubbio costrutto chiamato «arte dell’est», la cui essenza risiede in una presunta esperienza unica e condivisa nell’est comunista del totalitarismo e il suo impiego trasgressivo principalmente nel contesto occidentale, oppure è stata articolata in un modo più pragmatico e leggermente cinico come una nicchia nel sistema globalizzato dell’arte che ha diritto di reclamare un’attenzione e un valore particolare, in entrambi i casi la resistenza è stata confinata all’interno di un paradigma identitario.
Queste e altre strategie simili di resistenza all’egemonia dell’ovest, basate sul una logica identitaria, non solo hanno perso il loro carattere sovversivo e il loro valore di mercato, l’intera teleologia della transizione post-comunista è andata in frantumi. La sua retorica non commuove più nessuno. Ha perso la capacità di arrivare al cuore e alle menti e di scatenare processi d’identificazione. Quando la gente oggi protesta sulle strade di Mosca, quando occupa le università e lotta nelle fabbriche o esprime in altro modo il proprio rifiuto di ciò che è ancora chiamato Est post-comunista, il motivo non risiede nel loro essersi identificati con il soggetto di una «rivoluzione recuperante» di cui perseguire senza stanchezza – o forse peggio senza fine – lo scopo. Il criceto è saltato giù dalla sua ruota («preferirei di no», come avrebbe detto Bartleby) e ha trovato la terra sotto i suoi piedi. Ora inizia a muoversi per davvero. Non sappiamo in quale direzione, ma sappiamo che ogni passo va verso l’ «est» e «l’ovest» allo stesso tempo.
Per conto proprio, come una linea tangente
Potrebbe anche darsi che la storia sia sfuggita al museo, che sia riuscita a evadere da quel confinamento identitario chiamato Est. Che i suoi guardiani, quei curatori, archivisti, esperti forensi, canonizzatori culturali, normatori dell’ovest e comparatisti dell’est si siano addormentati per un momento, o che l’esperienza storica stessa si sia inaspettatamente risvegliata da decadi di profonda amnesia e abbia mostrato la via d’uscita? Non abbiamo risposte, ma sappiamo per certo che la storia è di nuovo sui suoi binari, libera di seguire il proprio corso. Tuttavia ciò non rende automaticamente la divisione tra est e ovest obsoleta. L’egemonia di cui abbiamo parlato è ancora intatta, un’egemonia dell’ovest nell’indicare la direzione. Ciò che è mutato è il modo in cui noi ci rapportiamo a questo. Imprigionato nello stallo della transizione, l’est ha tradotto se stesso nell’idioma dell’ovest, cercando disperatamente di ottenere l’impossibile – l’autenticità dell’originale. Ma questo non è ciò che definisce una traduzione.
Lontano dall’essere una mera produzione secondaria di un originale, che necessariamente manca della propria autenticità, la traduzione può affermare una sua propria autenticità. Nelle sue traduzioni, così come Walter Benjamin ha detto una volta, l’originale lotta per la propria sopravvivenza. Non è forse l’ovest di oggi che, dopo la frantumazione dell’edificio ideologico della transizione del post-comunismo, sta disperatamente lottando per la propria sopravvivenza storica attraverso la sua traduzione nell’est? O non è piuttosto la storia stessa che sta lottando in queste traduzioni per la propria sopravvivenza al di là della divisione tra est e ovest? Di nuovo non abbiamo risposte, ma ciò che sappiamo per certo è che questa lotta è una lotta per la libertà. Sintetizzando la sua teoria della traduzione, Benjamin ha usato la metafora della linea tangente. Le traduzioni si rapportano all’originale nello stesso modo in cui una tangente si rapporta a un cerchio. Lo tocca in un singolo punto, solo per seguire subito dopo la propria direzione. Oggi questo è probabilmente il modo in cui dovremmo immaginare che l’est traduca l’ovest, o per radicalizzare quest’idea, il modo in cui dovremmo pensare che la storia lotti per la propria sopravvivenza.
Traduzione Silvia Simoncelli ed Elvira Vannini
Note
↩1 | Jürgen Habermas, Die nachholende Revolution [The Rectifying Revolution], Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1990, p. 203. |
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↩2 | Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 1975 (prima edizione, 1948). |
↩3 | v. paragrafi «Lotta politica e guerra militare» (Quaderno 1, paragrafo 134) e «Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale», (Quaderno 7, paragrafo 16), ibid. |
↩4 | Boris Buden, «Children of Postcommunism», in Radical Philosophy 159, Jan/Feb, 2010, p. 18-26. |
↩5 | Rastko Močnik, «Withe East’s past be the West’s future?», in Caroline David (a cura di), Les Frontières Invisibles [The Invisible Borders], Oostkamp: Stichting Kunstboek, 2009. |
↩6 | Questo è perfettamente documentato nel video di Igor Grubic, East Side Story (2006-2008). |
↩7 | Vedi «Gay parades banned in Moscow for 100 years», BBC News, Europe, 17 agosto 2012, http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-19293465 |
↩8 | In seguito mi sono basato su una conferenza tenuta da Bini Adamczak al ICI (Institute for Cultural lnquiry) di Berlino con il titolo: «The Feeling of Revolution. Queer Questions of 1917», dal convegno «Utopia: Wreckage», tenutosi il 16 giugno 2011. |
↩9 | Ad esempio, nel trattare l’omosessualità, la legislazione sovietica nel 1920 era pronta ad adattarsi alle differenze culturali tra le sue molte nazionalità e comunità religiose. Si costruì il proprio «Est tardivo», dove sono state ammesse deviazioni dalla norma generale. I governi sovietici nel Caucaso e in Asia Centrale per esempio hanno fatto promulgare leggi contro alcune forme di esternazione dell’omosessualità. |
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