Corpi, parole, immagini (di sé, di altre donne), mezzi e strumenti per dare visibilità ai primi, un altro senso alle seconde, ripensare le terze. Lo hanno fatto le donne coi movimenti delle donne animando una rivolta chiamata «femminismo». Le hanno fatto anche le artiste della mostra «L’altra misura: arte e femminismo negli anni Settanta». Tra le pratiche dei femminismi e le pratiche artistiche obiettivi comuni e percorsi intrecciati: costruirsi dei corpi votati ad altro che al dominio.
L’altra misura
Arte e femminismo negli anni '70: una mostra
È un nuovo modo di pensare l’arte il punto di forza del lavoro di diverse artiste che negli anni ’70 intendono fare i conti con la marginalità cui le consegna il sistema dell’arte in Italia: la interrogano, la denunciano, ne rintracciano le radici nella storia e nella cultura italiane, senza accettarla o subirla passivamente come uno stato di fatto naturale. L’altra misura: arte e femminismo negli anni ’70 (mostra curata da Raffaella Perna presso la Galleria Frittelli Arte Contemporanea di Firenze) ritraccia il percorso di questo gesto di rottura: estetica e politica.
In una lettera inviata nel 1975 a Lucy Lippard, tra le più acute interpreti del Concettuale e dell’arte femminista, Ketty La Rocca esprime il disagio e il peso di lavorare in un ambiente artistico dove perdurano forti disparità tra uomo e donna: «Ancora, in Italia […] essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile». La «difficoltà incredibile» di cui parla La Rocca – la fatica di essere artista e donna – non è un malessere individuale, ma un fenomeno sociale che tocca, in misura differente, tutte le artiste attive nel nostro Paese tra gli anni Sessanta e Settanta: all’epoca, infatti, la presenza femminile nelle grandi rassegne espositive, nei concorsi d’arte, nelle collezioni pubbliche e private è esigua, quasi inesistente. Questa condizione di subalternità, in cui le donne sono costantemente penalizzate ed escluse da posizioni nevralgiche, inizia a mostrare i primi segni di cedimento proprio negli anni Settanta, quando la diffusione del femminismo produce una nuova consapevolezza critica (e autocritica) che spinge alcune artiste a ripensare il proprio ruolo nella società, a rivendicare spazio e accesso nei musei e nelle istituzioni, a denunciare la carenza di visibilità e le discriminazioni subite. Il sistema italiano rimane a lungo impermeabile alle esigenze manifestate dalle artiste donne e sono pochi/e i critici e le critiche militanti che nel corso del decennio accolgono le nuove istanze; sono ancora meno i luoghi e i centri istituzionali pronti a rispondere alle richieste delle donne.
Scarsa, nel complesso, è anche la capacità delle artiste di fare fronte comune, soprattutto per la paura di essere «ghettizzate» (le mostre di sole donne erano definite spregiativamente «ghetti rosa»). Le voci fuori dal coro, tuttavia, non mancano e sono spesso molto incisive: gli scritti e le mostre di Lea Vergine, Annemarie Sauzeau Boetti, Romana Loda; l’attività di artiste come Mirella Bentivoglio, Simona Weller, Carla Accardi; e la vicenda singolarissima e radicale di Carla Lonzi, pur nella diversità di prospettive, animano un dibattito che per la prima volta affronta gli aspetti sociali, culturali ed estetici legati alla differenza di genere. La riflessione sulla marginalità delle donne dà quindi avvio a un nuovo modo di pensare l’arte e, nel contempo, è il punto di forza del lavoro di diverse artiste che proprio con tale marginalità intendono fare i conti: la interrogano, la denunciano, ne rintracciano le radici nella storia e nella cultura italiane, senza accettarla o subirla passivamente come uno stato di fatto naturale.
Le artiste presenti nella mostra Altra misura – Tomaso Binga, Diane Bond, Lisetta Carmi, Nicole Gravier, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Anna Oberto e Cloti Ricciardi – hanno storie e percorsi diversi e ognuna di loro ha affrontato il rapporto con la militanza con un’ottica personale: Paola Mattioli, Diane Bond e Cloti Ricciardi, ad esempio, hanno partecipato all’esperienza dei gruppi di autocoscienza, mentre Nicole Gravier e Tomaso Binga hanno accolto le idee del femminismo senza un coinvolgimento diretto nelle attività dei collettivi. Al di là delle posizioni individuali, ciò che accomuna la ricerca delle artiste presenti in Altra misura è l’uso militante e politico della fotografia, concepita come uno strumento per raccontare la realtà attraverso l’assunzione di uno sguardo sessuato che esplora le differenze di genere; la fotografia diviene anche un mezzo per costruire relazioni, scambi e nuove strategie di rappresentazione del femminile. Queste artiste hanno infatti adottato la fotografia sia per decostruire gli stereotipi di genere e i cliché sessisti insiti nel linguaggio e nella comunicazione mediatica, sia per esplorare i nessi tra corpo e identità femminile e rivendicare le istanze del personale e del vissuto.
Nel contestare le immagini della donna diffuse nella cultura visiva occidentale, dove il corpo femminile è abitualmente sottoposto a un processo di reificazione, il medium fotografico è per queste artiste un alleato prezioso: la peculiare natura di indice della fotografia – la sua specifica contiguità con il reale (teorizzata proprio nella seconda metà degli anni Settanta da Rosalind Krauss) – fa sì che l’immagine fotografica si presenti come una traccia sensibile del corpo, luogo in cui si inscrivono non soltanto i segni dell’identità biologica, ma anche quelli legati al ruolo sociale e pubblico. La fotografia ha consentito quindi alle artiste di muoversi su un doppio binario: attraverso questo medium, da un lato, esse hanno messo in primo piano il corpo per sondarne potenzialità, limiti e desideri alla ricerca di una dimensione identitaria non più alienata e libera dai canoni maschili; dall’altro, hanno demistificato le ideologie trasmesse proprio con e nelle immagini del corpo. Nella mostra hanno quindi trovato spazio opere fotografiche che agiscono, sostanzialmente, su questi due fronti.
Ketty La Rocca, Lucia Marcucci e Nicole Gravier scelgono la fotografia, strumento abitualmente considerato trasparente e «obiettivo», per sconfessarne l’apparente mimetismo attraverso pratiche di decostruzione del linguaggio, in particolare di quello mediatico (rotocalco, pubblicità, fotoromanzo). I lavori di queste artiste sono indicativi del desiderio di dissacrare, con sguardo ironico e straniante, i canoni delle immagini del femminile diffuse dai media, in cui la donna, rappresentata come oggetto del desiderio dell’uomo, è sempre bella, giovane e disponibile. Nelle immagini mediatiche, inoltre, il corpo femminile è spesso presentato sotto forma di frammento: su tale aspetto riflettono, ad esempio, molti collage di Lucia Marcucci, dove il corpo della donna è ridotto alle parti anatomiche legate alla sfera erotica, labbra rosse e seni turgidi.
Nella serie Mythes et Clichés (1978) Nicole Gravier, artista francese attiva stabilmente a Milano dai primi anni Settanta, mette invece a nudo gli stereotipi del fotoromanzo, ritraendosi all’interno di scenografie allestite ad hoc, mentre simula pose e atteggiamenti tipici di questo genere popolare, nato in Italia nell’immediato dopoguerra. Da un lato, Gravier esaspera il carattere dolciastro e sentimentale caratteristico delle immagini del fotoromanzo, dall’altro introduce elementi stranianti che stridono con l’atmosfera «rosa» della foto: la donna interpretata dall’artista è ritratta mentre trepida pensando all’oggetto della sua passione, circondata dalle foto dell’innamorato o da riviste patinate con le pubblicità di prodotti di bellezza. All’interno di queste scene melense Gravier inserisce oggetti incongrui, come ad esempio in I Will Think of Him Every Moment, Constantly (1979), dove, a creare una smagliatura, compare una copia dell’antologia Il pensiero politico curata da Umberto Cerroni. L’effetto di discontinuità si genera dalla relazione delle sfere simboliche opposte del femminile e del maschile: quella stereotipata della donna, legata alla dimensione del sentimento romantico e della vita familiare, e quella altrettanto stereotipata dell’uomo, connessa alla ragione e all’azione politica.
Le opere di Tomaso Binga, Cloti Ricciardi, Libera Mazzoleni e Verita Monselles demistificano, invece, il sessismo insito nel linguaggio stesso, dove il femminile è concepito in funzione del maschile, e sperimentano la possibilità di formulare un linguaggio altro, fondato in primo luogo sul corpo. Un lavoro come Oggi spose (1977) di Binga, ad esempio, pone l’accento sull’usanza da parte della donna di adottare il cognome del coniuge, al fine di evidenziare come la condizione di assenza e di perdita legata al femminile si espliciti nel linguaggio. Quest’opera, inoltre, prende di mira la simbologia stereotipata connessa all’appartenenza di genere: la donna è ritratta in abito bianco, con aria romantica e sognante; mentre l’uomo (interpretato anche lui dall’artista) posa con espressione seria, circondato dagli strumenti del lavoro. Il limite di confinare l’identità unicamente entro il binomio uomo-donna è reso evidente anche dalla serie dei Travestiti di Lisetta Carmi, pubblicata nel 1972 nel libro omonimo; questi scatti documentano l’esistenza di modelli di vita e comportamento posti al di fuori della tradizionale dualità di genere, e per questo socialmente discriminati. Il libro all’epoca fece scandalo, e gli unici ad avere il coraggio di presentarlo furono Mario Mieli e Dacia Maraini. La critica al sistema di valori dominante anima anche il lavoro di Verita Monselles: «Le immagini che propongo», scrive all’epoca l’artista, «sono l’oggettivazione della crisi esistenziale della donna, che vede posto in discussione il suo ruolo di fronte alla maternità, alla famiglia, alla religione, alla sessualità, nel contesto di una società repressiva». Nelle sue foto, in particolare, emerge un atteggiamento caustico nei confronti del maschilismo espresso dalla cultura cattolica.
Nella serie Ecce Homo (1976) l’artista fotografa le natiche di una modella in modo che assumano un aspetto cruciforme: attraverso l’inquadratura e il contrasto fotografico i particolari anatomici femminili vengono trasformati in una croce per sovvertire così l’iconografia sacra. D’altronde, negli anni Settanta l’influenza del Vaticano in Italia è avvertita con più forza che altrove – si pensi ad esempio al peso dell’intervento della Chiesa cattolica in occasione dei referendum popolari sull’abrogazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto – e tale condizione non può non ripercuotersi nella ricerca artistica femminista. Anche il lavoro di Libera Mazzoleni Luca, II 49 (1977) si fonda infatti su un atteggiamento critico nei confronti della cultura cattolica: una frase tratta dal Vangelo di Luca viene cancellata, alterata e giustapposta dall’artista a foto legate ad ambiti diversi, per aprire la scrittura a nuove possibilità di senso: «L’ordine simbolico del testo, escludente e misogino», scrive Libera Mazzoleni, «così disarticolato lascia affiorare l’imprevedibile ricchezza del possibile».
Il medium fotografico, tuttavia, non viene usato soltanto per denunciare cliché mediatici e culturali o rituali pubblici solennizzati proprio dalla fotografia (come il matrimonio), ma anche per avviare un’attività di raccolta e recupero di immagini legate al vissuto e alla memoria individuali, nell’ottica di una rivendicazione del ruolo politico del personale. La fotografia, e in particolare la Polaroid, ha un ruolo cruciale nel rappresentare il vissuto familiare delle artiste donne: nella serie Diario v’ideo senti/mentale (1974), ad esempio, Anna Oberto esplora la dimensione della maternità riportando le tracce dell’apertura al mondo e al linguaggio vissuta dal figlio Eanan. L’opera è coeva e per certi aspetti affine al Post-Partum Document (1973-1979) di Mary Kelly: entrambi i lavori pongono l’accento sugli aspetti psicologici, sociali e culturali determinati dall’esperienza della maternità e dalla crescita di un figlio.
Diario v’ideo senti/mentale si presenta infatti come una successione di fogli, equivalenti alle pagine di un diario, sui quali l’artista annota con interventi grafici, verbali e fotografici, le fasi e le scoperte che segnano la relazione del figlio di diciotto mesi con l’ambiente esterno. Oberto raccoglie gli scarabocchi infantili di Eanan, rivelatori della sua condizione prelinguistica, e li giustappone a foto Polaroid che lo ritraggono mentre fa esperienza del mondo, di sé e (con un riferimento a Lacan) della sua immagine riflessa allo specchio. Il ricorso all’apparecchio Polaroid, che per la sua immediatezza e facilità di utilizzo ha costituito uno tra gli strumenti più diffusi per testimoniare l’intimità dei momenti familiari, accentua la sensazione dello spettatore di trovarsi dinnanzi a un diario privato. L’immagine fotografica esibisce una fattura priva di ricercatezze formali, sviluppando così un racconto intimo e quotidiano, intessuto di ricordi e suggestioni.
La maternità è al centro anche della sequenza Sara è incinta (1977) di Paola Mattioli, dove la gravidanza è rappresentata come un momento intenso di scambio e confidenza tra donne. Mattioli adotta, infatti, la fotografia come strumento utile a porre in discussione i modelli vigenti di rappresentazione del femminile, molto spesso fatti propri e interiorizzati dalla donna stessa, attraverso la creazione di rapporti umani fondati sulla reciprocità, sul gioco e sulla sorellanza. Una visione corale è alla base anche della serie coeva Donne allo specchio, in cui Mattioli interviene sul tema della reificazione prodotta dalla fotografia: le donne vengono fotografate mentre si specchiano, quando, cioè, prendono consapevolezza di sé come altro da sé; l’autrice stessa si inserisce nella serie, identificandosi con le compagne. «In ognuna di loro mi rispecchio anch’io», spiega all’epoca Mattioli, «perché è nell’altra che ritrovo frammenti diversi del mio stesso guardarmi». L’obiettivo analizza il momento in cui l’autrice vive e condivide l’esperienza di essere nel contempo soggetto e oggetto della visione, decostruendo i meccanismi dell’immagine e costruendo per lei e per la fotografia una nuova identità.
La serie venne pubblicata nel libro fotografico Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, edito da Mazzotta nel 1978, del quale vengono qui esposte per la prima volta gran parte delle maquette originali. In mostra viene presentato, inoltre, il video di Diane Bond Tendenze delle tende, in cui l’artista filma una serie di lenzuola bianche stese al vento, dipinte con figure femminili, simbolo del rifiuto del ruolo di «angelo del focolare» tradizionalmente ricoperto dalla donna. Lo stesso motivo ritorna anche nella serie fotografica pubblicata da Bond in Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo. Il volume è frutto del lavoro collettivo condotto, oltre che da Mattioli e Bond, da Bundi Alberti, Mercedes Cuman, Adriana Monti, Esperanza Núñez e Silvia Truppi. Nel libro il racconto di sé e del proprio vissuto non è considerato soltanto come l’espressione di una storia privata, ma anche e soprattutto come momento altamente significativo per la comprensione della realtà sociale e politica della donna: il personale e il collettivo, in fondo, sono le polarità attorno a cui ruotano l’intero volume e le molte opere presentate nella mostra Altra misura, dal 4 luglio pubblicate su «OperaViva».
Il progetto della mostra Altra misura, tenutasi dal novembre del 2015 al marzo del 2016 nella Galleria Frittelli Arte Contemporanea di Firenze, nasce dalle ricerche condotte per il libro Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books, 2013). Il titolo della mostra è un omaggio all’omonima esposizione curata da Romana Loda nel 1976 a Falconara: una mostra «minore», lontana dalle capitali dell’arte, scelta per ricordare l’impegno di chi, all’epoca, ha sostenuto e promosso la sperimentazione al femminile. Le foto pubblicate sulla rivista OperaViva nel bimestre luglio e agosto 2016 sono courtesy della Galleria Frittelli Arte Contemporanea di Firenze e realizzate da Claudia Cataldi.
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