L’anomalia italiana
Differenze e conflitti del pensiero
All’inizio furono due antologie a proporre il pensiero radicale italiano al pubblico di lingua inglese, . un numero della rivista Semiotext(e) significativamente intitolato «Autonomia» (1980), curato da Sylvère Lotringer e Christian Marazzi, e poi «Radical Thought in Italy» (1996) a cura di Michael Hardt e Paolo Virno. La prima usciva in piena No wave, la seconda quando «il grande freddo» degli Eighties era ormai alle spalle. Da quel momento, e soprattutto a partire dagli anni zero, è cresciuto l’interesse internazionale per la produzione filosofica italiana, soprattutto quella di derivazione operaista e post-operaista, si sono moltiplicati i convegni, le antologie e le traduzioni che hanno dato vita alla cosiddetta Italian Theory.
Ora una nuova pubblicazione a cura di Pietro Maltese e Danilo Mariscalco, «Vita, politica, rappresentazione. A partire dall’Italian Theory» (ombre corte, 2016, pp. 208, euro 18.00), raccoglie i materiali di un recente convegno di studi, tra filosofia, letteratura e cinema, e prova a fare il punto su un dibattito che in Italia ha preso l’abbrivio grazie a «Pensiero vivente» (2010) di Roberto Esposito, e «Italian Theory» (2012) di Dario Gentili – preceduti da un affondo velenoso di Toni Negri, «La differenza italiana» (2005) – e si è da ultimo sviluppato ancora nei volumi «Differenze italiane» (2015) a cura di Dario Gentili ed Elettra Stimilli, e «Da fuori» (2016) di Roberto Esposito.
Ricostruita con precisione dai curatori, la questione ruota intorno all’ipotesi fondamentale che regge l’idea di una «via italiana» al pensiero filosofico, un dispositivo che oggi prenderebbe il posto di altre strade ormai consumate, la «German Philosophy» costruita intorno alla «negazione», e la «French Theory» costruita intorno alla «decostruzione». L’ipotesi, è noto, è che quello italiano sia da sempre un pensiero sradicato e cosmopolita, estraneo al paradigma sovranista e neutralizzante che ha caratterizzato la filosofia europea moderna, un pensiero strutturalmente antifondativo e biopolitico, in presa diretta con le vicende storiche e politiche del Belpaese, quindi costitutivamente «conflittuale» e sintonizzato sul ritmo dell’immanenza. E proprio per queste sue caratteristiche quello italiano risulterebbe oggi un pensiero particolarmente a suo agio in un mondo globalizzato e post-statuale, perché quelli che si erano ritenuti deprecabili ritardi rispetto alla modernità europea, si rivelano oggi degli straordinari vantaggi.
Certo questa ipotesi è suggestiva e potrebbe risultare convincente, e se può sembrare ingeneroso o eccessivamente ostile ridurre l’Italian Theory a un’operazione di marketing culturale, occorre però aggiungere una glossa per orientarsi meglio nella vexata quaestio. Il fatto è che lo stesso dispositivo dell’Italian Theory è conflittuale, ovvero attraversato al suo interno da spaccature e differenze, tensioni che eccedono i confini dello stesso dispositivo e che occorre percorrere fino in fondo per individuarne le alternative.
Allora, così come in passato è stato possibile distinguere nel postmoderno una «declinazione» forte (quella di Deleuze e Negri), e una «debole» (quella di Rorty e Vattimo), così nel dispositivo dell’Italian Theory è possibile individuare almeno due linee: una materialista, produttiva e costituente – quella «differenza» che nel suo velenoso affondo Negri riconosceva nell’operaismo e nel femminismo italiano – e una linea post-metafisica che punta invece sull’inoperosità di matrice heideggeriana. Da una parte le lotte che determinano l’essere e lo costituiscono, dall’altra una loro diminutio in chiave «vitalista».
Insistere sulle differenze dell’Italian Thought serve evidentemente a decidere da che parte stare. E in questa direzione vanno alcuni dei saggi contenuti in questa raccolta, senz’altro quelli dei curatori, quello di Mariscalco che ripercorre il «divenire culturale» del general intellect dal ’77 in poi per riscoprirne ancora oggi, contro la sua sussunzione, tutta la potenza trasformativa, e quello di Maltese che, ripercorrendo le letture di Esposito e Negri su un Gramsci foucaultiano, inserisce produttivamente il comunista sardo nel paradigma biopolitico dell’Italian Theory. Insomma, dentro e contro l’Italian Theory, si tratta, ancora una volta e come sempre, di prendere partito.
Una versione più breve di questo articolo è uscita su il manifesto il 27-12-2016.
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