Lettera
Una lettera di un medico ai suoi medici, nel cuore del centronord colpito dall’emergenza epidemiologica. Frammento di un epistolario che spiega bene di quanto sia difficile restare calmi mentre tutti intorno fanno rumore, per non dover sventolare mai sul ponte della nostra umanità una bandiera bianca.
Ravenna 24 Maggio 2020
A tutto il personale della Pneumologia, Ospedale Morgagni, Forlì.
Cari ragazze e ragazzi,
sembra sia finita o comunque in gran parte sotto controllo. È difficile per me dirvi a parole, a tu per tu, quello che sento per tutti voi; la commozione mi darebbe del filo da torcere.
Questa pandemia è stata per me, credo per tutti, del tutto inaspettata, non nell’orizzonte del modo di intendere il nostro mondo e la nostra vita. Ma come sempre nelle situazioni gravi si appalesano le qualità ed i difetti delle persone. Bene, queste difficoltà hanno dimostrato che tutti voi siete persone importanti, con valori saldi, amore per il prossimo, senso della solidarietà e che avete scelto questo mestiere (assistere chi soffre nella carne) come vocazione. Tutti noi abbiamo avuto paura (non averne non è coraggio, è semplicemente incoscienza) ma abbiamo saputo convivere con essa senza farci condizionare, paralizzare. Soprattutto sono riusciti a manifestare grande coraggio coloro che si sono a loro volta ammalati.
In questo periodo molti di noi hanno dovuto convivere anche con la solitudine. Si era soli a casa, non ci si poteva consolare con le parole o gli abbracci, o con i semplici sguardi di chi ci voleva bene. Si arrivava stanchi a casa e al massimo si diceva buonasera al divano del salotto.
Molti di noi hanno avuto gli affetti lontani e magari loro stessi esposti ai medesimi pericoli. Ricordandoci dei nostri genitori, di quanto loro hanno fatto e sofferto per renderci ciò che ora siamo abbiamo continuato e spesso abbiamo anche sorriso a chi era più in difficoltà di noi.
In questo periodo l’amore per i malati, i nostri ammalati, è sempre stato il nostro faro. Abbiamo pianto, e molto, come bambini quasi, quando loro e soprattutto i più giovani fra di loro, non gliela hanno fatto. Che giorni di grande sconfitta quelli. Abbiamo gioito quando, i più grazie al cielo, sono potuti tornare ai loro affetti, riprendere la vita.
Io, da parte mia, ho imparato molto da voi. Ho imparato dai più «vecchi» il coraggio, il senso della testimonianza e la pazienza, dai più giovani l’entusiasmo e l’orgoglio di poter fare del bene. Da tutti che (anche se – come scrive Sant’Agostino – «siamo uomini, particelle della creazione, che portiamo in noi stessi la morte») sappiamo far vincere la vita con la forza dell’amore.
In questo periodo ci hanno indicato come eroi. Noi sappiamo benissimo che ciò non è vero ma piuttosto ci sentiamo di condividere quanto scritto da Albert Camus ne La Peste «ci sentiamo più solidali coi vinti che coi santi. Non abbiamo inclinazione per l’eroismo e per la santità. Essere uomini, questo solo ci interessa».
Con grande affetto e riconoscenza.
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