Noi che desideriamo senza fine

Il ’68 come imprevisto détournement

maio2
Atelier Populaire des Beaux-Arts (1968).

Premessa

Se dovessi individuare un titolo che possa fare da insegna per orientarci a trovare una direzione all’interno di quel dedalo che è stato il movimento del ’68, indicherei senz’altro il volume di Raoul Vaneigem Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni. In questo libro appartenente alla galassia dell’Internazionale Situazionista viene toccata a riguardo una questione centrale, quella che potremmo definire una puntuale specificità del ’68: l’idea, cioè, che ogni rivoluzione per essere tale deve avere a che fare con un sovvertimento pratico del gesto quotidiano. La rivoluzione è in primo luogo una rivoluzione del proprio modo di vivere: «In ogni rinuncia quotidiana, la reazione non fa che preparare la nostra morte totale»1. La preoccupazione principale di Vaneigem indica quella che agitò in profondità la rivolta del ’68; dal vago sapore deleuziano è possibile riassumerla così: come impedire ai desideri di diventare il loro contrario? In che modo l’arte di vivere può sottrarsi alla cattura dei processi di mercificazione? E al contempo si agita in questa domanda una tonalità nietzschiana del movimento, la sua tensione verso l’inattualità e verso l’immanenza di un soggetto assoluto, che perde le sue geografie ordinali e che frantuma però così anche il momento dell’organizzazione.

Genealogica

Su un piano diverso ma altrettanto importante è innanzitutto necessario interrogare il rapporto fondamentale che il Maggio francese, il ’68, ha avuto con il processo di trasformazione del capitalismo in senso post-fordista e neo-patriarcale. Per farlo dobbiamo fare riferimento a un lavoro che nella sociologia europea ha lasciato una certa traccia. Il testo cui mi riferisco si intitola Il nuovo spirito del capitalismo di Luc Boltanski e Eve Chiappello2, uscito per Gallimard alla fine del secolo scorso. Il libro parte dall’idea che le sopra ricordate trasformazioni del capitalismo siano il risultato di una operazione di metabolizzazione, o meglio come dicono loro di «disarmo» delle critiche che a esso vengono rivolte. In altre parole, la particolarità della loro tesi starebbe nel fatto che nel ’68 due diverse critiche avrebbero trovato un’inedita e stringente convergenza rivendicativa: la critica sociale e la critica artistica.

La prima di matrice operaia è legata alla lotta per il miglioramento delle condizioni del lavoro e delle sue terribili modalità di esercizio in fabbrica, la difesa del salario e delle protezioni sociali collegate al lavoro. La seconda rivolta invece a contestare l’organizzazione gerarchica e burocratica della società, l’avvilimento della vita dentro la rigida conformazione temporale dettata dalla macchina e dall’imperativo della produttività. La denuncia della forma inautentica della vita e dell’alienazione furono momenti importanti di connessione e l’asse operai-studenti produsse in effetti uno scossone sulla quiete sociale forse fino ad allora mai vista prima. La critica sociale unita, o forse sarebbe meglio dire, cucita, a quella estetica, produsse un effetto di destabilizzazione inedito del sistema, che per sfuggire al crollo, seguendo Boltanski, ne selezionò alcune (a scapito di altre) e cominciò a tradurle nel linguaggio dell’accumulazione. La selezione indebolì la coalizione e cominciò a dividerla nella sua potenza rivendicativa e nelle sue istanze di fondo. Più specificamente alcune delle richieste della contestazione artistica finirono nei manuali di management sotto le spoglie di nuove e più flessibili pratiche organizzative e retoriche manageriali; inaugurando così, nella pancia della fabbrica diffusa, la trasformazione in senso post-salariale del sistema capitalistico3.

Il nuovo spirito del capitalismo non sarebbe allora altro che un nuovo modo di allineare le soggettività all’accumulazione, nato per rispondere alle critiche di fine anni Sessanta; un modo di piegare il dispiegato desiderio di libertà e autonomia al desiderio del mercato post-industriale. Un modo che pur non rinunciando mai del tutto a un’azione di governo militare e repressivo, si organizza sempre di più a partire da potere sollecitativi, nutritivi, più attenti (al fine di aumentare il profitto) a non mortificare la risorsa umana al lavoro. Massimiliano Nicoli nel suo bel libro Le risorse umane parla in tal senso di un neomanagement «umanistico» che mette a valore le componenti più intime del lavoro vivo e della cooperazione sociale4.

Insomma cosa vogliamo sostenere? Che è a partire dal ’68 che il lavoro comincia un radicale processo di trasfigurazione che lo porterà a perdere quasi completamente le sue caratteristiche sociali e morfologiche di tipo industriale. Rispetto a questo l’insegnamento di Foucault e Deleuze è irrinunciabile. Nel Poscritto sulle società di controllo, ad esempio, Deleuze mette in forma tutta una serie di ragionamenti sulle trasformazioni del potere e del modo capitalistico di governare la vita che non possono non colpirci per la loro attualità e la loro stringenza. In alcuni passaggi il filosofo francese sottolinea con forza la conformazione di una nuova società post-disciplinare e post-concentrazionaria, che sostituisce il modello della fabbrica con il modello dell’impresa. Apprendiamo così che «le imprese hanno un’anima; la novità più terrificante di tutte (…). Può darsi che vecchi mezzi ispirati alle antiche società di sovranità, ritornino sulla scena, ma con gli adattamenti del caso. Il punto è che siamo all’inizio di qualcosa. (…) Nel regime dell’impresa: i nuovi modi di trattare il denaro, i prodotti e gli uomini che non passano più per la vecchia forma-fabbrica. Sono esempi molto limitati, che tuttavia permettono di comprendere meglio che cosa si intenda per crisi delle istituzioni, vale a dire l’insediamento progressivo e diffuso di un nuovo regime di dominazione»5. La frase che però dobbiamo qui per i nostri scopi trattenere, di questo minuto ma importante contributo di Deleuze, è quello che chiude la prima sezione dedicata alla Storia del nuovo modello societario capitalistico. Cito: «Non è il caso di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi»6. Occorre ricostruire il conflitto e il suo esercizio a partire dall’agonia della fabbrica in favore dell’impresa. «L’impresa è un’anima, un gas». Si insinua dappertutto, diventa lo spazio stesso della nuova modalità di soggettivazione. Quale modo possiamo trovare che sia più efficace di questo per descrivere la nuova ragione del mondo7?

Cosa significa allora, oggi, trovare nuove armi? A mio avviso si tratta innanzitutto di ripartire dalla centralità dello sfruttamento e dalle sue nuove logiche che si sono determinate a partire dal definirsi del nuovo spirito del capitalismo. Si tratta in altre parole di interrogare teoricamente il campo dello sfruttamento contemporaneo e quindi di indicarne, circoscrivendole analiticamente, le fragilità e le emergenze organizzative.

Credo inoltre sia innegabile che le società di controllo chiamino in causa nuove modalità di estrazione del valore che impongono una riflessione a partire dai limiti del concetto marxiano di sussunzione. Categoria certo irrinunciabile, ma che al contempo, come dichiarato per primo dal femminismo, non riesce a dare conto degli spazi interstiziali, e dello sconfinamento estrattivo dello sfruttamento direttamente all’interno della sfera della riproduzione sociale. Occorre in altre parole inaugurare una riflessione qualitativa sullo sfruttamento e non ridurlo unicamente a una questione di contabilità tra lavoro pagato e lavoro non pagato. Il regno del quantitativo deforma infatti anche il modo in cui siamo capaci di desiderare: «L’Eros quantitativo della velocità, del cambiamento rapido, dell’amore contro il tempo deforma dappertutto il volto autentico del piacere. Il qualitativo assume lentamente l’aspetto di un infinito quantitativo, di una serie senza fine e la cui fine temporanea è sempre la negazione del piacere, un’insoddisfazione di base, come nel dongiovannismo»8. E ancora: «Io non desidero un seguito di istanti, ma un grande momento. Una totalità vissuta, e che non conosca durata. Il tempo nel quale io duro non è che il tempo del mio invecchiamento»9.

Occorre dunque pensare a una rivoluzione che sia materiale ed estetica al contempo. Altrimenti nessuna rivoluzione è possibile. Perché la prima non si produce senza la seconda e viceversa. D’altra parte è questo credo l’insegnamento prezioso del maggio ’68. Usare il pavé come arma contro la repressione per trovare però la spiaggia che sotto lo sorregge10. Far convergere istanze differenti nella stessa direzione costituendo l’idea di un nuovo piano di immanenza, dove far balenare un tempo e uno spazio imprevisto, fino a un attimo prima ancora neanche immaginabile. «Ricostruire la vita, riedificare il mondo: una stessa volontà»11.

La versione completa in È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68 (ombre corte, 2018), a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino.

Note

Note
1R. Vaneigem, Trattato di sapere vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. Vallecchi, Firenze 1973 (1967), pp. 167-168.
2L. Boltanski e E. Chiappello, Il nuovo spirito del capitalismo, trad. it. Mimesis, Milano-Udine 2014 (1999).
3F. Chicchi, S. Lucarelli, E. Leonardi, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, ombre corte, Verona 2016.
4M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2014.
5G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, trad. it. Quodlibet, Macerata 2000 (1990), pp. 240-241.
6Ivi, p. 235.
7P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità liberista, trad. it. DeriveApprodi, Roma 2013 (2009).
8R. Vaneigem, Trattato di sapere vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 77.
9Ivi, p. 81.
10Ci riferiamo qui, evidentemente, al famoso slogan del maggio francese: «Sous les pavés, la plage».
11R. Vaneigem, Trattato di sapere vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 81.

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