Qui dove?

Per un linguaggio che insegue le cose

Sabrina Mezzaqui, "C’è qui nell’aria la parola-ramo" (2021) - Courtesy l'artista e Galleria Continua. Foto di Lostandfoundstudio.

Tra i mitologemi della strana forma di vita che viene detta «moderna» sta la distinzione – di ordine morale prima che pratico – tra la parola e la cosa. Una distinzione che fa del solecismo un peccato mortale, una turpe compromissione con la magia, la quale – spiega chi ne sa – è proprio il tentativo di produrre effetti di realtà con l’uso di parole, e che in forza di questa pretesa dissennata si vota all’esclusione eterna dall’Eden della cultura, cioè della parola. Più forte e imperioso del tabù dell’incesto, che maestri novecenteschi pure hanno posto a principio della civiltà umana, l’interdetto che vieta di pensare alla parola come a una cosa è condizione d’ingresso in quell’ordine protologico che ci colloca tra le persone dotate di senno. O di qua o di là: la parola ci pone in quel maniero in rovina entro cui il desiderio rimosso ma presentissimo di toccare il Reale, come in Racconto d’autunno di Tommaso Landolfi, vale da evocazione del fantasma, rito macabro di adorazione di un Dio che non è riservato all’umano, pronto a scatenare il suo furore se richiamato dal capriccio di chi non sa starsene seduto in pantofole a guardare il fuoco. Giorgio Manganelli ha avuto il buon cuore di cogliere il nodo senza tirar su trattati: «Il linguaggio non serve a conoscere una eventuale realtà, ma a sfiorarla, a «non vederla» – pur sapendo esattamente dove si trova, anzi presupponendo appunto che questo si sappia in modo indubitabile, e calcolando i modi dell’elusione su codesta distanza»1.

È quindi con qualche cautela che scrivo qui di un rito dei più pericolosi, quello propiziato qualche mese fa a Roma, Galleria Continua, da Elisa Biagini e Sabrina Mezzaqui – un rito che già dal nome, C’è qui nell’aria la parola-ramo, promette un’esperienza diabolica di evocazione del Reale. E se quello di darsi un nome è gesto che ha a un tempo del compromissorio e del minaccioso rispetto al mondo della parola, colpisce in primo luogo la presenza rivelatoria di una deissi che manca di referenza: «qui» – un’autodenuncia in piena regola. «Qui dove?», vien da chiedersi. Ma proprio questo a me pare il punto: ovunque e in nessun luogo, perché la parola di Biagini non si iscrive in un regime di riferimento spaziale. C’è qui nell’aria la parola-ramo è un ponte di Einstein-Rosen che ci porta in una realtà ipotetica, in cui la parola si tocca e la materia si lascia dire senza che alcun precettore dell’ordine linguistico sia a dirimere il di qua e il di là del dicibile. Un’autentica galleria gravitazionale, in cui, prima e più che spazio e tempo, sono parola e cosa a dare corpo (in un senso tutt’altro che figurato) a un’entità unica. Se la mostra ha certo avuto un luogo specifico in un periodo circoscritto, questi non sono che travestimenti, un sotterfugio metamorfico per invitare a commettere reati in ogni parte si invochi la parola-ramo.

Qui non si sta a scriver cataloghi d’arte, sia chiaro, che di arte peraltro si capisce poco. Quindi non è tanto la mostra in sé che rileva, quanto l’esperienza straniante che garantisce, i cui effetti sono rari a trovarsi nel fortunato repertorio della filosofia della mescolanza che promette di trasformarci in pianta con un’opera di abile seduzione; oppure in tutti quei libri redolenti d’accademia che dicono – e dicono e dicono – che tutto è materia e che danno a credere che dalla prigione della parola si possa uscire con la parola. Beninteso: m’iscrivo tra chi ha tentato questa operazione di mercato e ha fallito. Ma il fallimento pesa tanto più quando l’effetto desiderato è conseguito da altri e senza superfetazioni cartacee. C’è qui nell’aria la parola-ramo fa proprio questo: ci invita ad attraversare due stanze in contiguità e di affidarci a una voce. Nell’invito a seguire una voce, d’altra parte, non si veda alcuna professione di umiltà: è anzi un segno di consapevole rottura con una maniera radicatissima del pensiero occidentale, che ignora da sempre «l’unicità della voce» e quindi «ignora l’unicità in quanto tale»2.

Sabrina Mezzaqui, “Mettere a dimora” (2008) – Courtesy Galleria Continua. Foto di Ela Bialkowska.

Nello specifico, rottura con la convinzione che una stessa esperienza sia davvero ripetibile. Da due speaker utilmente disposti a produrre vibrazioni nello spazio, la voce di Biagini affida le parole di una poesia alla ripetizione del verso e agli urti del suono.

Se l’asse cede, se la
Voce affonda,
c’è qui
nell’aria, la
parola-ramo
che ci tiene3.

Basta un passo o due per sentire gli stessi versi traendone sensazioni e affetti diversi. L’esperienza dello stesso verso, in una frazione di tempo dopo, che equivale a un passo, non è la stessa esperienza (ammesso il verso sia lo stesso). E a far ciò, nella stanza, oltre agli speaker, non c’è nulla da vedere, leggere, toccare: primo avvio al disorientamento per chi, come pressoché tutt*, ha introiettato l’istinto didascalico di cucire una parola a un segno scritto. La voce di Biagini si fa seguire lungo una rotta alternativa, la «pura vibrazione senza significato se non quello di ogni sillaba sibilante»4. A prendere il posto del tratto d’inchiostro su fondo bianco è un tripudio di altro materiale: cedimenti, fratture, cadute, dislivelli, miscugli gassosi di azoto e di ossigeno, tutti veicolati dalla voce. E così, nello spazio tra speaker e speaker, si mette a soqquadro il modo abituale di fruire di una mostra e di leggere una poesia, con la diversione degli organi di senso chiamati in azione: in questo caso l’udito, certo, ma anche il passo (che è modo dell’esperienza prima che canale sensoriale), assieme alla ricerca di un posto adeguato nella superficie di una stanza mediamente affollata – impresa non da poco, lo si potrà riconoscere senza bisogno di scomodare la prossemica.

La stanza che segue è un omaggio al miracolistico. Dalla superficie bianca spuntano rami su cui poggiano uccelli che ricordano quegli uccelli parlanti che talvolta incontriamo in sogno. Ma qui di onirico c’è poco, perché, come dicevo, la pretesa arditissima è quella di impiantare sul nulla della superficie bianca la parola-ramo. Secondo avvio al disorientamento, che fa leva sulla forza alocale del «qui»: una parola-ramo che può spuntare da qualunque sezione della parete e che ha l’energia propulsiva per produrre bizzarre foglie e sostenere bipedi piumati capaci di dosare il loro peso verso un volo che non è né reale né metaforico. Attenzione, però: non è del totem della natura felice che Biagini cerca la protezione, quanto di quello della guerra. Questa seconda stanza della mostra inscena, sotto altra specie, la giuntura irreversibile di parola e materia nel segno di una infrazione studiatissima della separazione tra parola e cosa: dividere le due sarebbe possibile solo a una personalità deviata, preda di un delirio di ordine onnivoro che in questa stanza non avrebbe né strumenti da impiegare né un oggetto su cui insistere. Ebbri di questo richiamo alla scompostezza, veniva voglia di aggrapparsi al ramo sporgente per testare l’effetto della presa e misurarne la capacità di reazione: non averlo fatto credo sia indice di un fraintendimento; al meglio, di una comprensione troppo timida.

Sabrina Mezzaqui, “Fare fiori” (2017) – Courtesy l’artista e Galleria Continua. Foto di Ela Bialkowska e Okno Studio.

La forza guerresca della poesia di Biagini è questa: contrabbandare un principio del disordine che ha dell’elusivo rispetto all’ordine divisivo di materia e parola e ha dell’evasivo di contro alla persistente richiesta di senso.

È un continuo voltarsi:
quale è la lingua
che traccia il
proseguire, la mano
che pareggia
la terra dentro
l’orma?
esserci
nell’assenza,
verticali5

Lingua e mano su terra come arnesi in una battaglia che si gioca in altro campo, come i Fiori minuti di Mezzaqui hanno tutti la ripetuta insolenza di sfuggire alle loro cornici. Il fuori campo, l’oltre cornice, non è certo l’avanguardia di una guerra moralistica, come ahimè troppe delle guerre ambientaliste recenti, che colla scusa della biodiversità coccolano la natura come oggetto del piacere narcisistico dell’essere umano, suo novello salvatore – un ruolo auto-ascritto, sintomo di una ricercata onnipotenza, che nel Medioevo gli sarebbe costato l’Inferno. Con il suo inquinamento di valori, però, Biagini non vuol salvare, né riscattare, né creare futuri possibili. La sua guerra è di altro segno: rimarcare il carattere materico della parola, di ogni parola; esaltare la sua forza, che non è tanto evocativa (verrebbe da dire: mai sia!) quanto di costituzione dell’oggetto d’esperienza.

Sabrina Mezzaqui, “Fiori minuti” (2019) – Courtesy l’artista e Galleria Continua. Foto di Pamela Bralia.

Poeta, dice Marjorie Perloff (che fa eco a Marcel Duchamp), è chi capisce che «ate has nothing in common with eat», che lo stesso non è mai lo stesso, e che quindi ogni parola, ogni morfema e fonema e ogni forma ritmica fa la differenza6. Poesia è saper scegliere le parole per scoprire, non tanto creare, relazioni inattese – sì verbali, ma soprattutto visive e sonore. In questo senso, la poesia è l’arte in cui la differenza è più importante della somiglianza e le relazioni sono più importanti delle entità relate. L’arte di disporre una parola in uno spazio in forza dei suoi effetti – non tanto (quasi per nulla) dei suoi significati – esaltata dalla capacità di comprendere come la minima alterazione di un elemento entro un complesso possa risultare in un radicale mutamento del tutto. Il richiamo di Perloff a Eliot è a un tempo illustrativo e delizioso: «My theory of writing verse […] is that one gets a rhythm, and a movement first, and fills it in with some approximation to sense later»7. Questo il senso della «costituzione» di cui sopra: non c’è oggetto d’esperienza poetica prima della sua costituzione in un’alchimia di ritmo, effetto, movimento – quello il senso di un «qui» che può trovarsi ovunque ma solo in certi posti.

Non se ne voglia trarre la conclusione che la poesia di Biagini sia una specie di teofania, che ci riservi una mistica, che apra all’ineffabile. Tutt’altro. La sua poesia, forse tutta la poesia, è un luogo concretissimo in cui si esperisce un linguaggio non riducibile alla semantica e che quindi chiede di guardare alla parola come una cosa che va ben disposta per creare relazioni proprie in uno spazio abitabile – relazioni possibilmente piacevoli o quantomeno funzionali. D’altro canto, a me sembra, rispetto a tutto quanto si può trarre dalla messe di opuscoli devozionali su un nuovo modo di stare al mondo in un mondo alla rovina – culto che pratico al meglio che posso, sia chiaro – forse questa di Biagini è una guida più affidabile: ricercare gli intrecci di parole e cose, là dove è vero che le parole fanno esperire le cose così e così, ma è pure vero che una ridislocazione delle cose comanda nuove parole e nuovi legami tra esse. Detto altrimenti, un nuovo linguaggio. E questo è un ulteriore elemento di conquista che si può trarre dalla poesia di Biagini: perlopiù non è l’essere umano che forgia nuove parole; questo non è in suo potere. Il linguaggio segue il disporsi delle cose, ne individua i legami di unicità, ne perimetra le alleanze che rendono possibile la vita. Tutto quel che gli si richiede, quindi, non è un linguaggio rivoluzionario, ma uno che sappia aderire alle cose e seguire il turbinio di forme sempre nuove che sanno predisporre. Impresa forse meno eroica, ma certo più capace di presagire la fine che ci aspetta.

 

Note

Note
1Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, 2004, p. 18.
2Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, 2004), p. 15.
3Elisa Biagini, Da una crepa, Einaudi, 2014, p. 95.
4Clarice Lispector, Acqua viva, Adelphi, 2017, p. 11.
5Elisa Biagini, Filamenti, Einaudi, p. 37.
6Marjorie Perlof, Infrathin: An Experiment in Micropoetics, The University of Chicago Press, Chicago-London 2021, p. 6.
7Ivi, p. 69.

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