Aldiqua
L’immagine è donna?
Questioni di cinema o di femminismo? Genere, lotta e immagini in un focus su donne e immagini in movimento.
Del documentario che Akerman dedica a Pina Bausch Un giorno Pina mi ha chiesto… resta indelebile la scena di Kontakthof (1978) dove una donna è auscultata, pesata, toccata, maneggiata da un folla di burocrati e dottori dai gesti sempre più ossessivi. Un corpo femminile inerte al centro, vestito in chiffon rosa, e un cerchio di uomini in giacca e cravatta tutt’intorno, la cui violenza metodica traspare dalla ripetitività fredda dei movimenti. Il cinema di Chantal Akerman, come il teatro-danza di Pina Bausch, è un’opera che prende tutto il suo senso nella durata. La durata di un piano sequenza, dove Jeanne Dielman compie i gesti che regolano la sua quotidianità; la durata di una frase coreografica, dove i corpi stanchi che popolano Café Muller ci mostrano una tensione che cresce proprio attraverso questa ripetizione ostinata. Corpi di donna, corpi di sopravvissuti, a cui si restituisce uno sguardo che non li frammenta, che non li taglia, che non li erotizza: a tratti burleschi a tratti tragici, a tratti semplicemente presenti, in tutta la loro caducità.
Per Stéphane Bouquet1la regista belga e la coreografa di Wuppental condividono il fatto di essere due artiste dei resti, delle rovine: la loro tematica principale non è il nazismo, ma la quotidianità di coloro che restano, dopo. La ronda di Kontakthof sembra uscita da una delle testimonianze raccolte da Charlotte Beradt in Sognare sotto il terzo Reich, e il cinema di Akerman è tutto fatto di questo regolare i conti con un passato che non passa, con un trauma storico che lavora l’intime. George Steiner ripete spesso “Non è il passato che ci tormenta, sono le immagini del passato che lo fanno”. Akerman ribadisce a più riprese il suo tentativo di trovare il giusto posizionamento etico per parlare di ciò che l’esperienza dei campi fa a un corpo di donna. E piccoli nodi di racconto passano da un film all’altro, modulando all’infinito questa questione, dando vita a ritratti forti di donne che hanno conosciuto la cattività, e che il film ci propone dopo, nel loro ri-aprirsi alla vita. Delphyne Seyrig, star montante del cinema d’autore francese degli anni Settanta (Demy, Resnais, Truffaut), che proprio in quegli anni abbandona il cinema di registi uomini per fondare un collettivo di ricerca con Carole Roussopolos (Sois-belle et tais toi), incarnerà più volte per Akerman personaggi femminili che mettono in atto piani di sopravvivenza. Perché in fondo tra la Jeanne Dielman di Bruxelles, che nella sceneggiatura originale aveva il tatuaggio dei campi sull’avambraccio, e la Jeanne de Golden Eighties (“Laggiù il mio cuore è morto, non sento più niente” ci canta quasi distrattamente tra un balletto e l’altro), tra le nonne del documentario Dis-moi, o la fumatrici stanche di Tutta una notte, persiste questa necessità di creare un microcosmo altro, come impermeabile alla storia e al desiderio, dove quest’ultimo fa irruzione in termini più o meno controllabili. La casalinga che sbuccia le patate in una casa di Bruxelles ci interpella non soltanto perché la simmetria impersonale delle inquadrature ci trasmette con forza qualcosa di troppo o quasi niente del pensiero della protagonista, ma perché questa prigionia domestica autoimposta, che lo spettatore vive assieme a Seyrig per tre ore, non può che risvegliare ricordi intimi di una condizione femminile da sempre associata a un sistema claustrofobico. E che le scene di prostituzione siano filmate esattamente nello stesso modo in cui vediamo Seyrig preparare i pasti per il figlio, non è da leggere né in chiave brechtiana, né in chiave didattico/dimostrativa: si tratta di un’uniformità stilistica coerente, che più di qualsiasi cinema militante ci ricorda, quasi senza averne l’aria, la verità ultima dell’istituzione matrimoniale o della coppia in cui la sessualità è transazione impersonale, e, esattamente come tutto il resto, una relazione impigliata nei meccanismi di autodifesa e di contrattazione.
Perché in fondo, accanto a Jeanne Dielman, quasi per assurdo, la spettatrice contemporanea non può non pensare al film “Portiere di Notte” dell’italiana Cavani. Usciti in sala a solo un anno di distanza, questi due film agli antipodi l’uno dell’altro per scelte registiche e etiche, condividono una stessa reazione di rifiuto del pubblico. Se Marguerite Duras si alzerà sconcertata alla première a Cannes di Jeanne Dielman, dichiarando “questa donna è pazza” (senza troppo precisare se si riferisca alla regista Akerman o al personaggio), Michel Foucault condannerà con durezza il gesto della Cavani, qualificandolo di “nazi-porno intellettuale”, in un lungo articolo che espone i rischi di erotizzazione del potere di un certo cinema di sinistra degli anni Settanta. Non ci esprimeremo qui sullo spinoso dibattito del rapporto tra cinema e campi di concentramento, ma vorremmo attirare l’attenzione su tutto quello che il cinema di Akerman convoca quasi par absence. Jeanne Dielman porta dentro di sé qualcosa della Charlotte Rampling di Cavani perché il fuori campo (o lo schermo nero dell’istallazione D’Est), fuori campo di traumatismo storico, intimo e collettivo, convocano in potenza tutti i non-detti. La sottrazione e il silenzio, il pudore e la sobrietà diventano allora strumenti per raccontare la violenza senza mai prenderne parte, facendo atto di secessione da un linguaggio (cinematografico e non) che di quella violenza è tutto impregnato. La brutalità della Storia riemerge infatti, quasi per effrazione, come un treno merci sullo sfondo di un’inquadratura dei rendez-vous d’Anna, questo viaggio in terra tedesca, raccontato in stazioni la cui claustrofobia è debordante di memoria.
L’huis clos è del resto la grande cifra stilistica della regista: che la prigionia sia fisica (La Captive) o mentale (La-bas), che sia restituita sotto forma di giornale intimo (Je, tu il, elle), o di inseguimento hickcockiano (la Sylvie Testud nella parigi proustiana), si impone una stessa linea di morte, che prende corpo nel rigore della composizione geometrica, nella frontalità potente dello sguardo, nel coraggio di una durata che sconquassa tutta la grammatica cinematografica precedente. Perché in fondo la radicalità del gesto akermaniano risiede in questo: là dove ci è imposto un montaggio che corre più spesso al ritmo della merce che a quello del libero sentire, là dove la frammentazione gerarchica dei momenti drammatici ci suggerisce una subordinazione del tempo alla tirannia della historia, il piano fisso e il lungo travelling laterale lasciano emergere una epifania dei corpi, senza alcuna forma di voyerismo o di messa in scena. Corpi stanchi, dimentichi di sé (La chambre, Hotel Monterley), ma anche corpi danzanti, come quelli di Tutta una notte, o ancora corpi di clown tristi, come quello della stessa Akerman che nel 1968, appena diciottenne, si mette in scena mettendo tutto al rovescio e facendo allegramente esplodere la cucina nella quale forse era entrata solo per pulire.
E arriviamo quindi all’altro polo della femminilità akermaniana, quello delle linee di fuga. Se nel primo decennio della sua cinematografia l’austerità potente e rigorosa ci lascia i grandi ritratti di figure materne, dai viaggi non consumati e dalle rivolte impensabili, pian piano, le giovani donne, le figlie maldestre e il disagio di fronte alla Storia conquistano il centro della scena, cercando una via di uscita dalla compulsione a ripetere.
Queste ragazze camminano : cammina Michèle (Portrait d’une jeune fille de la fin des années 60 à Bruxelles), che percorrendo su e giù quelle strade della capitale belga negate a Jeanne, sulle note di Leonard Cohen, ci lascia una delle scene di danza più belle di quegli anni, dove la nascita del desiderio e la dichiarazione di quest’ultimo tra corpi adolescenti che si rivelano a se stessi e agli altri, sfugge a tutta quella panoplia di stereotipi volgarizzati dello sguardo registico eterosessuale e maschile; e cammina Nina (Folie Almayer), unica indigena in una pensione per l’alta borghesia bianca britannica, che nelle strade della grande megalopoli asiatica impara a rubare, a cantare, ma sopratutto a guardare: a guardare in una maniera che non è più quella che si conforma al ritmo degli altri, un guardare che ci fa capire che la nostra eroina è già ailleurs, in uno spazio-tempo altro dove la balera notturna in cui si esibisce non ha nessuna presa sul libero esprimersi del suo desiderio.
Da Michèle à Nina, da Charlotte (Domani traslochiamo, 2004) alle due fuggiasche di Ho fame Ho freddo (1984), una stessa secessione è messa in atto: “je n’appartient pas” ci sussurrano questi personaggi, con un passo di danza o con una filastrocca, con uno guardo in macchina o un’aria di Cosi Fan Tutte cantata a bruciapelo da dietro una griglia in ferro (Arianne/Sylvie Testud). Un po’ come Chantal in Lettera di una cineasta, che rifiutandosi di alzarsi dal letto, fa una pernacchia un po’ a tutto il cinema di quegli anni, e ribadisce che la scelta di non appartenere si può declinare in molteplici forme, dallo humour al kammerspiel, ma si dà sempre quando una creatività femminile decide di prendere la parola, facendo quel che può con i resti di un reale troppo maschile per essere nostro, finendo per forgiare una nuova sintassi che riscrive la storia del cinema.
Note
↩1 | Chantal Akerman, Autoportrait en cinéaste, Cahiers du Cinéma, Centre Pompidou, Paris, 2004, p.195 |
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