Torna diverso
Il museo secondo Stefania Zuliani
Da quasi un ventennio ormai Stefania Zuliani, attualmente docente di Teoria del museo e dell’esposizioni in età contemporanea, oltre che di Teoria della critica d’arte, all’Università di Salerno, sembra eleggere la questione del museo – specie della contemporaneità e nella contemporaneità – ad autentico asse portante del suo percorso di ricerca, che resta comunque e sempre caleidoscopico, aperto ad innumerevoli sollecitazioni, a cominciare naturalmente da tutte le altre tematiche che a quelle del museo, e tanto più del museo negli ultimi decenni, sono contigue.
Le mostre ed il loro moltiplicarsi come fenomeno globale – in particolare le biennali, per cui sono state presto coniate espressioni come biennal fever o biennal syndrome ‒ la figura del curatore tra mutamento e declino – per non parlare del declino del critico ‒, l’arte nello spazio pubblico e la correlata quanto spinosa problematica del monumento lo spazio, critico, dell’atelier d’artista – oggetto probabilmente talvolta relegato un po’ ai margini della grande tradizione degli studi storico-artistici ‒, sono infatti altrettanti motivi che affiorano costantemente accanto alla ricerca museologica di Zuliani in questi anni.
D’altra parte, questa, che è di gran lunga ormai l’identità più conosciuta della studiosa, non coincide con i suoi esordi, avvenuti all’insegna della storia della critica d’arte esercitata dai poeti – in particolare ricorderei le monografie su Leonardo Sinisgalli (1997) e su Michel Leiris (2002) ‒, venendo da una scuola come quella di Angelo Trimarco e di Filiberto Menna in cui lo studio della critica è coltivato come e quanto quello sulle opere. È solo intorno alla metà del primo decennio del nuovo millennio che Zuliani mette una volta per tutte al centro dei suoi interessi il museo: la data simbolica di tale svolta potrebbe identificarsi con il convegno Il museo all’opera. Trasformazioni e prospettive del museo d’arte contemporanea (2005), da lei curato presso la Fondazione Menna di Salerno. Da allora in poi, pur senza dimenticare incursioni anche molto significative in altri filoni di ricerca, il suo percorso appare svolgersi con una grande coerenza non solo tematica, ma anche in quanto improntato ad una incessante interrogazione sulle urgenze e sulle inquietudini del presente, cosciente della sua durezza eppure senza mai indulgere, nemmeno per un attimo, al pessimismo.
Torna diverso. Una galleria di musei (Gli Ori, 2022) – i cui capitoli riprendono «con significative modifiche, integrazioni ed omissioni» alcuni testi pubblicati nel corso dell’ultimo decennio ‒ non costituisce così che l’ultimo tassello di un itinerario fin dall’inizio votato a fare i conti con la conclamata nuova attualità del museo, dopo i violenti attacchi e le profezie di declino che attraversano gran parte del XX secolo e cominciano a scemare solo a partire dagli anni Ottanta, fino a giungere alla brendizzazione dei musei, ma anche alla rimodulazione della loro funzione, meno tradizionalmente centrata sulla conservazione delle sue collezioni, giacché bilanciata da una rinnovata propensione a fare del museo un catalizzatore di eventi e di partecipazione. Una trasformazione che a Zuliani appare allora – e credo appaia ancora – una occasione di democratizzazione, anche facendo leva su di un potenziamento delle pratiche educative , ma a patto di non abbassare il livello qualitativo, a patto che, come ella stessa scrive in Effetto museo. Arte, critica, educazione (2009), «il museo resti luogo di formazione del sapere e non si trasformi in un ennesimo non-luogo (surluogo), aeroporto, mall center, Disneyland».
Non bisogna correre, tuttavia, il rischio di far passare la narrazione per cui solo negli ultimi decenni – magari grazie all’impatto dell’attività degli artisti della critica istituzionale o alla critica al suo passato coloniale – il museo sia diventato realmente «interessante». Nell’introduzione alla sua «galleria di musei» – non può sfuggire il gioco semantico che evoca un contenitore di contenitori; o un contenitore di presunti contenitori? – Zuliani tiene infatti a chiarire: «L’avventura pubblica delle collezioni è sempre stata un’inquieta, non per forza consapevole, ricerca di altri orizzonti di senso, di ulteriori prospettive e funzioni, un processo instancabile di definizione che ha fatto del museo il terreno di scontro privilegiato tra inconciliabili epistemologie, ideologie»; mentre nella postfazione Pietro Gaglianò – direttore della collana in cui il libro è inserito – sottolinea quanto l’autrice sia «ben consapevole dell’arbitrarietà di ogni raccolta, di tutte le collezioni, che sono tanto più faziose quanto più dichiarano di aspirare alla totalità». Alla luce di tali presupposti il fatto che si tratti di una galleria personale, come non manca di esplicitare l’autrice, non inficia assolutamente il profilo di scientificità del suo sguardo.
L’itinerario prende le mosse dal caso di Alexander Dorner, artefice prima al Landesmuseum di Hannover e poi, costretto all’esilio dal nazismo, al museo Rhode Island School of Design di Providence di peculiarissime atmosphere room che «intendevano soprattutto coinvolgere il visitatore in un’esperienza totale, in grado di riprodurre in maniera sinestetica […] il punto di vista sulla realtà caratteristico di un determinato momento della storia (dell’arte)». Attraverso il susseguirsi di esse, lo storico dell’arte tedesco desidera rendere manifesto «prima di ogni altra cosa il complessivo processo storico di mutamento della visione e, quindi, dell’arte. Uno sviluppo che lo stesso Dorner si assumeva la responsabilità di interpretare e di rappresentare attraverso scelte assolutamente personali. Nella convinzione che mettere in gioco la soggettività, la creatività del curatore rappresentasse una garanzia di efficacia educativa e comunicativa». La concezione e la prassi di Dorner si configurano in netta antitesi «alle formalistiche logiche espositive» del MoMA di Alfred H. Barr Jr. Non di meno non solo Dorner diviene direttore del museo di Providence grazie al decisivo di appoggio di Barr, ma quest’ultimo include la documentazione fotografica del Kabinett der Abstrakten (1926-1928), realizzato da El Lissitzky per il Landesmuseum, in Cubism and abstract art (1936), ovvero , che ne sia più o meno consapevole , presenta come parte integrante di quella che resta probabilmente la più celebre ed emblematica mostra del suo MoMA «un antidoto potente» alla sua stessa idea di museo e di esposizione.
Parimenti lontana dal museo ancora inteso come «lo spazio silenzioso e impersonale di un’esposizione stabile di oggetti omogenei» è la collezione di André Breton, accumulata nel corso dei decenni nel suo appartamento parigino di Rue Fontaine e rimasta intatta per quasi trent’anni dopo la sua morte, finché nell’aprile del 2003 ‒ «non senza aspre polemiche» ‒ diviene oggetto di una «memorabile vendita all’asta», è in previsione di tale inevitabile smembramento che, nello stesso anno, il videoartista e scrittore britannico Ed Atkins si reca nell’atelier del teorico del surrealismo al fine di mostrarci, per l’ultima volta, le sue «stanze quasi impenetrabili», riuscendo nell’impresa di restituire «la vertigine di un’opera irripetibile, un sogno fatto di materie e di visioni, un microcosmo che si mostra ancora vivente nella luce della proiezione, nel desiderio degli sguardi che non possono comprenderne le prospettive perché troppo distanti e che però riconoscono in quella raccolta ormai perduta, nelle ombre di quegli oggetti smarriti l’eco di un pensiero, le tracce di un vissuto, le intenzioni di un progetto rivoluzionario e per questo totale».
Accanto al video di Atkins va inoltre considerato Il muro di Breton, ricostruzione della parete di fondo dell’atelier, «quella alle spalle della grande scrivania dietro la quale tante volte il poeta francese si è fatto fotografare», che dal 2003 – ancora questo anno ‒ è proprietà dello Stato francese. A governare la sua «scrittura spaziale» ‒ Zuliani ne è convinta, malgrado Dider Ottinger, curatore del Centre Pompidou, respinga tale lettura –, è «il demone dell’analogia, il criterio del come», ovvero la logica sottesa «al collezionismo enciclopedico delle Kunst e delle Wunderkammer, a un sapere analogico che si riconosceva nella relazione tra macro e micro cosmo». Difficile pensare, del resto, che «l’autore dell’Arte magica, sensibile al fascino dell’ermetismo e dell’alchimia […] non avesse considerato e anche attraversato il modello delle collezioni rinascimentali […] quello che mi pare sicuro è che, al pari della ricchissima raccolta di antichità e di oggetti esotici messa insieme da Sigmund Freud, quella di Breton non possa essere considerata una collezione di opere e di oggetti da contemplare».
La collezione di Freud e la sua travagliata storia che è all’origine di ben due musei, quello londinese che primariamente è la dimora del suo esilio ‒ una «casa luminosa e circondata dal verde dove lo studioso sarebbe morto nel 1939, soltanto un anno dopo il suo trasferimento» – e quello viennese che corrisponde, tra l’altro, all’appartamento in cui dal 1908 l’inventore della psicoanalisi «accoglieva i pazienti, lavorava alle sue ricerche, riceveva amici e allievi». Il primo, ove la figlia Anna desidera «non soltanto mantenere integra la collezione paterna, ma anche lasciarne intatta la collocazione», si configura oggi quale «eterno monumento e laico sacrario», «un museo commemorativo» ‒ sottolinea Joanne Morra nel suo Inside the Freud Museums (2018) ‒ «un vero e proprio cenotafio, un architettonico memoriale della vita e della morte di Freud interamente consacrato a una narrazione agiografica»; è lo stesso Freud ad osservare come, nella nuova dimora, «i tanti reperti egiziani, cinesi e greci» si mostrino «in maniera persino più impressionante […] c’era però una differenza significativa: una collezione alla quale nulla si aggiunge in realtà è morta». Il secondo «si offre piuttosto come un meno rassicurante e quindi più vitale conceptual museum, uno spazio vuoto in cui è possibile fare esperienza del trauma, di una assenza incolmabile e per questo attiva». Ancora Morra evidenzia come «l’acquisizione dell’appartamento e l’inaugurazione del museo avvengano negli anni dell’affermazione internazionale dell’arte concettuale, di cui il display documentaristico e fotografico del neonato museo sembra in effetti proporre scelte formali e modalità di comunicazione». Non è un caso se Joseph Kosuth «avrà un ruolo determinante nella stagione successiva del museo».
Se questi due musei si costituiscono sullo sfondo di una vera storia tragica – il nazismo e la persecuzione degli ebrei – il Museo dell’innocenza di Istanbul, inaugurato nel 2012, va inteso in parallelo alla storia di finzione ‒ per quanto verosimile ed almeno in parte alimentantesi della biografia dell’autore ‒ contenuta nel romanzo omonimo (2008) dello scrittore turco Orhan Pamuk, che naturalmente è anche l’artefice del museo e anzi comincia a lavorarci contemporaneamente alla stesura della sua opera narrativa (i primi oggetti raccolti risalgono addirittura alla metà degli anni Novanta). Zuliani sembra qui interessata non solo e non tanto al carattere di «gioco letterario» dell’operazione, per quanto pregevolissimo, bensì alla volontà esplicita di «definire la propria posizione teorica rispetto alla natura e alla funzione di un’istituzione museale». Da «scrittore che, come ha raccontato nelle pagine autobiografiche di Istanbul, avrebbe da ragazzo voluto diventare pittore», Pamuk, tanto attraverso il romanzo-museo, quanto attraverso altri progetti ed iniziative – per esempio il «suo (per niente) Modesto manifesto per i musei» o il volume Un sogno fatto a Milano (2018), ove dialoga «intorno alla poetica del museo» ‒, chiarisce la sua predilezione per «quei piccoli musei che, lontani da ogni soffocante monumentalità, sono in grado di rivelare l’umanità degli individui, quei musei modesti che sono aperti alle storie personali», giacché «queste piccole gemme nascoste nelle strade laterali e periferiche delle metropoli occidentali […] riescono a farci riscoprire un sentimento che i grandi musei nazionali, sempre più simili a parchi giochi o a centri commerciali, non sanno più trasmettere e che stiamo quasi dimenticando».
Non di meno talvolta persino nelle sale dei grandi musei – difficile dire che il Louvre non sia tale, ed ancor più in seguito alla «tanto sospirata, quanto osteggiata» apertura ad Abu Dhabi – «è possibile riconoscere un’alternativa alle grandi imprese museali». Con la «trionfante inaugurazione del Grand Louvre» nel bicentenario della Rivoluzione (1989) avrebbe avuto inizio infatti «una tenace e suggestiva linea di ricerca – museologica, critica, culturale – di cui i protagonisti sono stati, insieme alle donne e agli uomini del museo, poeti, scrittori, artisti, intellettuali». Zuliani pensa ad operazioni come il ciclo di mostre Parti pris, realizzata da Régis Michel «storico dell’arte dissidente e per molti anni conservatore del Dipartimento delle arti grafiche del Louvre» , il quale, nel corso di tutto il decennio Novanta, non coinvolge come curatori dei «professionisti della storia dell’arte», bensì «studiosi, letterati, filosofi, registi».
Lo «spirito di quel precoce progetto» viene ripreso a partire dal 2005, benché «in forme ovviamente altrimenti articolate e non in semplice continuità», dal giornalista e progettista culturale Jean-Marc Terrasse: «Il grande museo si lasciava dunque attraversare dalle imprevedibili correnti, fatte di suoni e racconti impertinenti, messe in moto da grandi invitati». Tra questi Jean-Marie Gustave Le Clézio, scrittore francese e mauriziano – come egli stesso preferisce definirsi – che nel 1971 scrive «una dura, a tratti spietata, invettiva contro la cultura occidentale ossessionata dalla tecnologia», contro l’uomo bianco, la cui arte è «senza corpo e magia, insensata scienza di forme e di colori di cui il museo è tempio ed epitome», ma quarant’anni dopo (2011) «nel ricevere le chiavi del Louvre non ha rinnegato quella giovanile requisitoria, anzi, l’ha rivendicata e l’ha riletta provando a fare del museo stesso un mondo finalmente conciliato, un mondo senza lacerazioni, senza quelle distanze e separazioni che costituiscono la condizione stessa del sapere occidentale».
Al Grand Louvre è connessa anche la vicenda di Yves Bonnefoy, che riceve la commissione per scrivere appunto «la sceneggiatura per un film che avrebbe dovuto raccontare le trasformazioni recenti del museo […]. Un’intenzione che il poeta evidentemente aveva colto e interpretato con una libertà tanto radicale da non trovare poi una corretta corrispondenza nel progetto, sostanzialmente celebrativo, del film, dove del testo di Bonnefoy non sono alla fine rimaste […] che pallide e disconosciute tracce». Un fallimento dunque? Senza dubbio, ma un fallimento di quelli felici, fecondi, in quanto tradottosi «in un libro raro, carico di promesse […] una vera e propria enfilade di testi spaziati d’aria, in bilico esatto tra impressione e commento, interrogazione e descrizione, che insieme tracciano nelle stanze del museo un percorso a un tempo reale e immaginario».
La critica ai grandi musei che abbiamo udito da Pamuk ritorna, con un grado di ostilità anche maggiore, in Giorgio Manganelli – introducendo la sua figura e qualche pagina più in là quella di Antonella Anedda, Zuliani sembra riallacciarsi come non mai in altre parti del libro ai suoi studi giovanili sulla critica d’arte dei poeti. Il pensiero di Manganelli sul museo appare subito chiaro dalla lunga citazione – accuratamente riportata ‒ in cui inveisce contro la sua pretesa «di essere solitario, esemplare, irripetibile», contro il suo presupporre «una passione non ignara di delitti, una cupa concentrazione, la mitologica fantasia di poter ritagliare uno spazio piatto e concluso, tolemaico, nel mondo sferico copernicano». Ai capolavori, «cose ambigue e un poco sinistre», all’«opera chiusa nella teca del museo» che «viene dichiarata eterna purché rinunci alla propria qualità magica, alla intrinseca violenza, perché accetti di essere bella», «questo sedicente scrittore di retroguardia», oppone l’anamorfosi come «(indiretta) via di uscita all’impermeabilità del mondo e, quindi, del museo».A tali umori è improntata la raccolta di testi Salons (1987), un titolo che «evoca naturalmente le celebri cronache d’arte di Diderot ma, ne sono convinta, è anche un indiretto omaggio alla critica per niente algebrica, indisciplinata e poetica di Baudelaire». Anedda, malgrado «la sua ortodossa formazione di storica dell’arte, gli studi accademici su Vittore Carpaccio e su Palma il Giovane», «non parla di quadri o di artisti», o almeno lo fa in maniera ancora meno regolare di Manganelli. Emblematico in tal senso è La vita dei dettagli (2009): «Il dettaglio, che per uno storico dell’arte rappresenta sempre un’occasione di rovello e di teoria […], si ritrova in tutte le stanze del libro, venendo chiaramente esposto nella prima sezione, scandita ritmicamente in trentadue vetrine, tutte di uguale formato: nella pagina di sinistra c’è il dettaglio, l’isola di un quadro, che si mostra nudo, senza un titolo, un autore, un tempo, in maniera da poter trovare un modo di vivere diverso e imprevedibile nello sguardo degli altri mentre sulla pagina destra, introdotto soltanto da un numero c’è un testo breve, a volte brevissimo», solitamente «un ricordo, un suggerimento, un’ipotesi, a volte persino una specie di indovinello».
La disamina si chiude con un altro «museo di carta», Encounters in the Virtual Feminist Museum (2007) di Griselda Pollock – o anche VFM, stando all’acronimo proposto dalla stessa autrice ‒, impresa da non intendersi alla stregua di un’ «edizione rosa» del musée imaginaire di André Malraux, data la siderale lontananza della storica dell’arte sudafricana ‒ «formatasi a Londra proprio quando i grandi racconti stavano tramontando a favore della frammentata condizione postmoderna» ‒ da quella idea «così radicalmente autoritaria» di un «onnicomprensivo museo dei musei», così come «non c’entra nulla neppure la virtualità digitale, oggi inevitabile e a volte pretestuosa protagonista di ogni riflessione sul museo che cambia». Parimenti Pollock non mira ad un «banale rovesciamento dello sguardo, una meccanica sostituzione di ruoli e di autorità». Si tratta invece di «una scelta, e direi anche una rivendicazione, di autonomia dalle consolidate tassonomie della storia dell’arte», tanto che nelle sue stanze «non si incontrano soltanto dipinti, fotografie d’autore, sculture ma anche cartoline, riproduzioni a stampa, anonime foto di famiglia, immagini che tutte si relazionano e si organizzano secondo mappe di senso alle quali corrisponde non il flusso continuo della Storia ma il tempo, anacronistico e mai lineare, dell’arte, che è anche il tempo indisciplinato, denso, oppositivo, della donna». Emblematico diviene il ritratto della pittrice statunitense Georgia O’Keeffe – «Protagonista del piano terra del VFM» ‒ realizzato dal compagno, il fotografo e gallerista Albert Stieglitz. Nel suo sguardo «diretto, implacabile», nel suo chiamarci in causa, «Costringendoci a riflettere su chi è che fa l’immagine, su chi ha il potere di decidere ciò che si vede, ciò che vediamo» risiederebbe infatti «il senso ultimo del Virtual Feminist Museum».
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