La critica e il museo

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«Il rapporto tra arte contemporanea e museo è un rapporto fondato su una contraddizione costitutiva». L’anno è il 1985 e Filiberto Menna, discutendo con Mercedes Garberi, riconosciuta e stimata signora dei musei civici milanesi, e con l’architetto e museografo Antonio Piva, mette immediatamente in evidenza come la relazione che lega al museo l’arte moderna (ché questa è, vale la pena ricordarlo, la sola arte contemporanea della quale lo studioso si è occupato con inflessibile passione) sia una relazione comunque controversa, inquieta per ragioni «di natura ideologica da una parte e di natura specificamente linguistica dall’altra».

Quello che il critico affronta sin dalle prime battute del suo intervento, con ogni probabilità connesso all’apertura a Milano dello sfortunato CIMAC (Civico Museo di Arte Contemporanea) inaugurato nel 1984 al secondo piano di Palazzo Reale, è un nodo teorico tra i più vitali e fecondi all’interno del dibattito critico e della ricerca artistica del Novecento, segnati a partire dalla stagione delle Avanguardie da un costante corpo a corpo tra un’idea di arte che sempre meno si identifica esclusivamente (principalmente) nella produzione di opere e la natura tradizionalmente normativa del museo, istituzione che, in permanente crisi di identità, appare oggi sempre più presente e attiva, riferimento tra i più certi all’interno dei flussi e delle trasformazioni del contemporaneo global art world.

Menna, che alla metà degli anni Ottanta ha da tempo intrapreso con decisione la sua battaglia a difesa del progetto moderno dell’arte e della critica, facendo delle pagine austere della rivista «Figure» lo strumento di una rigorosa polemica contro le derive di un postmodernismo di carattere regressivo, nella discussione con Garberi e Piva, di cui si conserva nell’archivio della Fondazione Menna una puntuale trascrizione, privilegia un approccio decisamente teorico alla questione del rapporto arte-museo, senza affrontare problemi o casi specificamente legati all’attualità della scena italiana.

Una scelta che non nasce certo da un disinteresse o, addirittura, da un disimpegno nei confronti della vita e del funzionamento delle istituzioni, dell’arte e non solo, oggetto costante del lavoro critico militante di Menna, che nel 1980 aveva pubblicato il volume Dentro e fuori. Intellettuali e istituzioni per documentare appunto il suo impegno accademico, politico e civile. A tenere in questa circostanza il critico lontano non dalle istanze del presente ma dalle urgenze della cronaca, è, ne sono convinta, la disillusione nei confronti degli ingenui tentativi di «svecchiamento» che, negli anni Settanta, avevano tradotto in maniera troppo superficiale la necessità di portare la sperimentazione dentro il recinto esclusivo del museo: in un articolo su questi temi uscito nel 1976 su «La Voce della Campania» Menna aveva concluso lapidario che «i volontarismi non sono sufficienti, meno ancore le pur generose conversioni populistiche».

Piuttosto che proporre l’analisi delle (poche) buone pratiche o di analizzare il repertorio, certo più ampio, dei mancati successi che caratterizzavano in quegli anni il panorama, ancora limitatissimo, dei musei d’arte contemporanea in Italia, Menna preferisce così riportare l’attenzione su come la critica, il museo, l’arte moderna nascano insieme nell’alveo dell’Illuminismo, come conseguenza di una specializzazione disciplinare che aveva rimesso in questione non soltanto la funzione dell’arte e il ruolo degli artisti, che lavorano ormai senza contare sulla tradizionale committenza, ma che, soprattutto, aveva mutato drasticamente il rapporto tra l’arte e l’aperto della città, creando una cesura da cui era scaturita l’esigenza di creare lo spazio, separato e pericolosamente chiuso, del museo: «il museo e la critica nascono nel momento stesso in cui nasce l’idea moderna dell’arte, perché l’idea moderna dell’arte consiste essenzialmente nel definire questa attività come un’attività specifica ed autonoma rispetto ad altre attività, quinci c’è una specializzazione del fare arte, del fare critica, del luogo in cui si conservano i manufatti».

Un’origine comune, quella tra critica, museo e arte moderna, che determina una contraddizione in apparenza insanabile e che però Menna prova a risolvere per forza di dialettica, suggerendo la possibilità di una nuova integrazione tra arte, museo e spazio urbano attraverso il lavoro critico, che è linguaggio e strumento comune: «Lo spazio espositivo (…) è il luogo della critica, della interpretazione». E, a fronte degli specialismi che caratterizzavano nei paesi industrialmente più avanzati l’attività critica e curatoriale, generando figure professionali precise e ambiti d’intervento circoscritti, Menna rivendica la specificità tutta italiana di una «maggiore indifferenziazione, che è un limite rispetto a certi risultati raggiunti altrove, ma che forse è anche un vantaggio.

La critica italiana è forse tra le più vivaci che si esprimano in Europa, proprio per questa molteplicità di funzioni che essa ha, cioè ognuno di noi sostanzialmente insegna all’università, fa delle mostre, scrive sui giornali, fa dei lavori anche di mediazione e infine scrive libri». Si tratta di una pluralità di spazi e di interessi, di una capacità di intervento teorico e di azione militante che la critica, anche quella italiana, ha ormai purtroppo perduto, privilegiando specialismi e costruendo recinti che hanno finito col rendere asfittico il lavoro critico, schiacciato tra gli eccessi mondani della curatela, le ragioni sempre più social dei musei e l’intransitività della ricerca accademica. Una condizione di frammentazione che la consapevolezza dell’origine comune di critica, museo e arte moderna ricordata trent’anni orsono da Menna potrebbe oggi aiutarci ad affrontare e, perché no, a trasformare. «Sostanza di cose sperate» (Persico).

 

 

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