Una biopolitica della riproduzione artefattuale

Le promesse dei mostri

jean painleve
Jean Painlevé, Fulgor d'Inde, 1931 – gelatin silver print

Estratto da Donna Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata (a cura di Angela Balzano, DeriveApprodi, 2019)

La teoria di questo saggio è modesta: non è una panoramica sistematica, è un piccolo dispositivo di localizzazione in una lunga serie di strumenti artigianali. I dispositivi di osservazione sono noti per aver giocato un ruolo importante nel riposizionamento dei mondi, che si tratti di esser loro fedeli o di avversarli. Gli strumenti ottici sono leve che cambiano il soggetto. 

Le promesse dei mostri è un diario di viaggio, un tentativo di mappare i paesaggi mentali e terreni di ciò che può contare come natura in alcune lotte locali/globali. Queste lotte si situano in un tempo bizzarro e allocronico – il mio tempo e quello delle mie lettrici, l’ultima decade del Secondo millennio cristiano – e in un luogo straniero, allotopico, l’utero di una creatura mostruosa e gravida, qui, dove stiamo leggendo e scrivendo. Lo scopo di tale escursione è di scrivere la teoria, cioè di produrre una visione informata per capire come muoversi e cosa temere nella topografia di un presente impossibile ma fin troppo reale, alla ricerca di un ancora assente, ma forse possibile, presente alternativo. Non cerco l’indirizzo di una qualche presenza piena. Contro voglia, ho imparato la lezione. Come Cristiano in Pilgrim’s Progress, mi impegno a superare la palude dello scoraggiamento e gli acquitrini del nulla, infestati da parassiti, per raggiungere ambienti più salubri1. La teoria serve ad orientarsi, ad abbozzare una mappa del viaggio, permette di muoversi dentro e attraverso un artefattualismo dinamico, che impedisce ogni diretta osservazione e localizzazione2 della natura, verso quel luogo scientificamente fittizio, speculativamente reale, chiamato Fantascienza (FS): semplicemente altrove. Almeno per coloro a cui questo saggio si rivolge, la «natura» al di fuori dell’artefattualismo si trova altrove come in nessun luogo, tutta un’altra materia. In effetti, l’artefattualismo riflessivo rappresenta una seria speranza politica e analitica. La teoria di questo saggio è modesta: non è una panoramica sistematica, è un piccolo dispositivo di localizzazione in una lunga serie di strumenti artigianali. I dispositivi di osservazione sono noti per aver giocato un ruolo importante nel riposizionamento dei mondi, che si tratti di esser loro fedeli o di avversarli. Gli strumenti ottici sono leve che cambiano il soggetto. La Dea sa: nel tardo XX secolo il soggetto non fa che mutare ininterrottamente.

Le funzioni ottiche della mia modesta teoria non hanno come conseguenza la presa di distanza, hanno effetti in termini di connessione, materializzazione e responsabilità nei confronti di un altrove immaginato che potremmo ancora imparare a scorgere e costruire qui.

Corro un alto rischio nel riutilizzare le visioni tecnopornografiche dei teorici della mente, dei corpi e del pianeta che insistono in modo efficace – cioè, nella pratica – su quanto la vista sia il senso deputato a realizzare le fantasie dei fallocratici. Penso che la vista possa essere re-inventata a vantaggio di chi si attiva e lotta alla ricerca di filtri politici che permettano di vedere il mondo nei colori del rosso, del verde e dell’ultravioletto, cioè, nelle prospettive di un socialismo ancora possibile, di un ambientalismo femminista-antirazzista e di una scienza a beneficio delle persone. Assumo qui come premessa auto-evidente che «la scienza è cultura»3. Radicato in questa premessa, questo saggio vuole contribuire all’attuale discorso, eterogeneo e molto vivace, degli studi sulla scienza intesi come studi culturali. Senza dubbio, cosa la scienza, la cultura o la natura – e il loro «studio»– possano significare è molto meno autoevidente.

Estremamente consapevoli della costituzione discorsiva della natura come «alterità» nella storia di colonialismo, razzismo e sessismo, come in vari modi nella storia della dominazione di classe, nondimeno troviamo in questo concetto – mobile, problematico, etno-specifico e sempreverde – qualcosa di cui non possiamo fare a meno, ma che non possiamo mai «avere». Occorre escogitare modi di relazionarsi alla natura che vadano oltre la sua reificazione e possessione 

La natura è per me, e azzardo per molte/i di noi feti planetari in gestazione tra le esalazioni amniotiche del tardo industrialismo4, uno di quegli oggetti impossibili che, come sostenuto da Gayatri Spivak, non possiamo non desiderare. Estremamente consapevoli della costituzione discorsiva della natura come «alterità» nella storia di colonialismo, razzismo e sessismo, come in vari modi nella storia della dominazione di classe, nondimeno troviamo in questo concetto – mobile, problematico, etno-specifico e sempreverde – qualcosa di cui non possiamo fare a meno, ma che non possiamo mai «avere». Occorre escogitare modi di relazionarsi alla natura che vadano oltre la sua reificazione e possessione. Si è spesa una ingente mole di risorse per trasformare la natura in qualcosa di stabile e materiale, per pattugliare le sue linee di confine. Questa spesa ha prodotto risultati deludenti. Gli sforzi per viaggiare all’interno della natura sono diventati escursioni turistiche che ricordano agli/alle esploratori/trici il prezzo di tale dislocamento: paghiamo per vedere i riflessi deformati di noi stessi/e. Gli sforzi per preservare la «natura» nei parchi rimangono inevitabilmente problematici a causa del marchio inestirpabile dell’espulsione che ne è a fondamento, quella delle persone che vi vivevano, non come innocenti in un giardino, ma come persone per le quali le categorie di natura e cultura non erano così salienti. Dispendiosi progetti per collezionare la diversità della natura e conservarla in banche sembrano mettere in circolazione monete corrotte, semi impoveriti e polverose reliquie. All’ipertrofia delle banche segue la scomparsa della «natura» che alimenta i magazzini. Il fatto che la Banca Mondiale abbia battuto tutti i record in materia di distruzione ambientale ne è emblema. Ancora, i progetti di rappresentazione e potenziamento della «natura» umana, reincarnati di recente nel Progetto Genoma Umano, sono noti per la loro matrice imperialista.

Dunque, la natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere o violare. La natura non è nascosta e pertanto non necessita di essere svelata. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo.

La natura è anche un tropos, un tropo. È figura, costrutto, artefatto, movimento, dislocamento. La natura non può preesistere alla sua costruzione

E tuttavia la natura è un topos, un luogo, nella sua accezione retorica indica uno spazio in cui si condensano temi condivisi: la natura è, strettamente, un luogo comune. Ci riferiamo a questo topos per fare ordine nei nostri discorsi, per ricomporre la nostra memoria. Nel suo significato topico, la natura ci ricorda che nel XXVII sec. in Inghilterra «gli dei topici» erano gli dei locali, legati a posti e popoli specifici. Abbiamo bisogno di questi spiriti, anche solo retoricamente, se non abbiamo la possibilità di incontrarne per strada. Ne abbiamo bisogno soprattutto per ri-abitare gli spazi comuni – collocazioni largamente condivise, inevitabilmente locali, mondialmente spiritate, in una parola: topiche. In questo senso la natura è il luogo in cui ricostruire la cultura pubblica5. La natura è anche un tropos, un tropo. È figura, costrutto, artefatto, movimento, dislocamento. La natura non può preesistere alla sua costruzione. Tale costruzione si basa su un particolare tipo di movimento, il tropos, la traslazione. Fedeli ai Greci, poiché la natura del tropos è la traslazione. Traslando, ci rivolgiamo alla natura come se fosse la terra, la materia originaria – geotropicamente, fisiotropicamente. Topicamente, viaggiamo in direzione della terra, un luogo comune. Alle prese con la natura, abbandoniamo l’accecante stella eliotropica di Platone per muoverci verso un altro tipo di figura. Non rinuncio alla visione, tuttavia cerco qualcosa di diverso dall’illuminazione in questi avvistamenti di studi scientifici come studi culturali. La natura è un tema del discorso pubblico attorno a cui ruota molto, persino la terra.

In questo vi(s)aggio6 verso l’altrove, ho promesso di mappare la natura indossando le lenti di un artefattualismo dinamico, ma cosa significa artefattualismo? In primo luogo, significa che la natura per noi è fatta, è al contempo finzione e fatto. Se gli organismi sono oggetti naturali, è cruciale tenere a mente che gli organismi non nascono. Essi vengono costruiti da determinati attori collettivi in determinati luoghi e tempi attraverso pratiche tecno-scientifiche in grado di cambiare il mondo. Nel ventre della bestia locale/globale in cui sto incubando, spesso detto mondo postmoderno7, la tecnologia globale sembra denaturalizzare ogni cosa, per trasformare tutto in materia plastica oggetto di decisioni strategiche e processi di produzione e riproduzione mobili (Hayles, 1990). La decontestualizzazione tecnologica è un’esperienza ordinaria per centinaia di milioni se non miliardi di esseri umani, così come per altri organismi. Tuttavia, suggerisco, più che di denaturalizzazione si tratta qui di un particolare tipo di produzione della natura. L’ossessione per il produzionismo, tanto tipica di discorsi e pratiche occidentali provinciali, sembra essersi ipertrofizzata in qualcosa di simile a un prodigio: il mondo intero è rifatto a immagine della produzione di merci8.

La natura non è affatto da leggersi attraverso le lenti del produzionismo e dell’antropocentrismo eurocentrico che hanno minacciato di riprodurre, letteralmente, tutto il mondo nell’immagine mortale del Medesimo. Le eco-femministe e le/gli altre/i teoriche/i radicali non ci hanno ancora persuaso? 

Come potrei, al cospetto di un tale prodigio, insistere seriamente sul fatto che interpretare la natura come artefatto vuol dire situarsi in modo oppositivo, o meglio, differenziale?9L’insistenza sull’artefattualità della natura non potrebbe essere ulteriore dimostrazione della grave violazione perpetuata ai danni di una natura che sarebbe esterna e altra dalle arroganti devastazioni della nostra civilizzazione tecnofila? Dopo tutto, non ci hanno insegnato che essa comincia con l’eliotropismo dei progetti illuministici di dominio sulla natura, perseguiti grazie a quell’abbagliante luce messa a fuoco dalle tecnologie ottiche?10 La natura non è affatto da leggersi attraverso le lenti del produzionismo e dell’antropocentrismo eurocentrico che hanno minacciato di riprodurre, letteralmente, tutto il mondo nell’immagine mortale del Medesimo. Le eco-femministe e le/gli altre/i teoriche/i radicali non ci hanno ancora persuaso?

La natura comune cui anelo, una cultura pubblica, ha molte case con molte/i abitanti in grado di dar nuova forma alla terra. Forse le/gli altre/i attrici/ori/attanti, le/i non-umane/i, sono le nostre divinità topiche, sia organiche sia inorganiche 

Ritengo che la risposta a questo serio interrogativo politico e analitico risieda in due rovesciamenti correlati: la nostra liberazione dalle narrazioni encomiastiche e solari della storia della scienza e della tecnologia come paradigmatiche del razionalismo; la riconfigurazione delle/gli attrici/ori nella costruzione delle categorie etno-specifiche di natura e cultura. Le attrici e gli attori non iniziano né finiscono in «noi». Il fatto che il mondo esista per noi come «natura» sta a indicare un particolare tipo di relazione, un risultato raggiungibile solo con il concorso di molte/i attrici/ori, non tutte/i umane/i, non solo organici, non solo tecnologici11. Nelle sue incarnazioni scientifiche, come in altre forme, la natura è fatta, ma non interamente, dagli esseri umani: è una co-costruzione tra umane/i e non-umane/i. Questa visione diverge nettamente dall’osservazione postmodernista, per cui tutto il mondo è denaturalizzato e riprodotto in immagini o copie replicate. Questa variante specifica dell’artefattualismo è violenta e riduttiva e, sotto le spoglie dell’iper-produzionismo purtroppo largamente diffuso a livello planetario, diventa contestabile in teoria e in pratica, senza dover ricorrere a un rinato naturalismo trascendentale. L’iper-produzionismo rifiuta la capacità di agire di ogni altro attore che non sia l’Uno: questa è una strategia pericolosa per tutte/i. Tuttavia, il naturalismo trascendentale nega la realtà di un mondo pieno di agenti cacofonici e dissonanti per accontentarsi dell’immagine speculare dell’Identità, ecco perché può solo fingere di fare la differenza. La natura comune cui anelo, una cultura pubblica, ha molte case con molte/i abitanti in grado di dar nuova forma alla terra. Forse le/gli altre/i attrici/ori/attanti, le/i non-umane/i, sono le nostre divinità topiche, sia organiche sia inorganiche12.

Traduzione dall’inglese di Angela Balzano  

Note

Note
1È nella «palude dello scoraggiamento» che si impantana il Cristiano di Pilgrim’s Progress (per la traduzione italiana si veda: J. Bunyan, Il pellegrinaggio del cristiano, Tipografia claudiana, Firenze 1863). Il linguaggio non standardizzato qui, nell’incipit de Le promesse dei mostri, vorrebbe mettere in risalto l’inappropriatezza delle parole al limite delle tecnologie normative della scrittura [N.d.T.].
2In inglese si(gh)tings. La traduttrice è stata tentata di azzardare osserv(localizz)azione, ma ha poi scelto di sciogliere il neologismo per maggiore scorrevolezza del testo [N.d.T.].
3Si veda la provocatoria pubblicazione che ha sostituito «Radical Science Journal»: «Science as Culture» Free Association Books, London.
4Questa nostra incubazione come feti planetari non coincide con la gravidanza e le politiche riproduttive collocate nel post-industrialismo e nel post-modernismo o in altri «post», anche se i punti di convergenza risulteranno più chiari nel corso del saggio. Le lotte contro gli effetti sono connesse.
5Per questo ringrazio il meraviglioso progetto della rivista «Public Culture», Bulletin of the Center for Transnational Cultural Studies, The University Museum, University of Pennsylvania, Philadelphia (PA) 19104. Dal mio punto di vista questa rivista incarna i migliori spunti nell’ambito degli studi culturali.
6In inglese: in this essay’s journey. La traduttrice si è concessa la libertà di giocare con le parole viaggio e saggio, fondendole [N.d.T.].
7Ho delle riserve sull’etichetta «postmoderno» perché sono persuasa come Bruno Latour che nel quadro storico in cui è stata costruita la scienza il «moderno» non è mai esistito, se per moderno intendiamo la mentalità razionale e illuministica (il soggetto, la mente, ecc.) che dovrebbe procedere con metodo oggettivo verso rappresentazioni adeguate, se possibile verso equazioni matematiche del mondo oggettivo, cioè «naturale». Latour sostiene che la Critica di Kant, che ha piazzato ai poli estremi la Cosa in sé e l’Ego trascendentale, ci ha fatto credere di essere «moderni», con conseguenze nefaste e a lungo termine sul repertorio di possibilità interpretative di «natura» e «società» per gli studi occidentali. La separazione dei due ordini di trascendenza, il polo dell’oggetto e il polo del soggetto, struttura «la Costituzione politica della verità». Chiamo tutto ciò «moderno» e definisco la modernità come completa cesura tra rappresentazione delle cose — scienza e tecnologia — e rappresentazione degli umani — politica e giustizia (Latour, 1993).
Per quanto possa apparire debilitante una tale immagine dell’attività scientifica, essa ha orientato la ricerca in varie discipline (storia, filosofia, sociologia, antropologia), che hanno studiato la scienza con un senso di rivalsa pedagogica e profilattica, facendo credere che la cultura fosse altro dalla scienza; la scienza da sola potrebbe scovare ogni segreto della natura svelando e controllando le sue ingovernabili forme di incarnazione. Pertanto, gli studi scientifici, incentrati sull’oggetto edificante della pratica scientifica «moderna», sono parsi immuni dalle infezioni inquinanti gli studi culturali – cosa difficile a dirsi oggi. Ribellarsi o perdere la fede nel razionalismo e nell’illuminismo, rispettivamente la condizione infedele di modernisti e postmoderni, non equivale a esplicitare il fatto che il razionalismo è stato l’imperatore senza vestiti, mai davvero imperatore, e che quindi non vi è mai stato un suo altro. (C’è una quasi inevitabile confusione terminologica tra la modernità, il moderno e il modernismo: uso modernismo per indicare il movimento culturale che si è ribellato alle premesse della modernità, laddove il postmodernismo si riferisce meno alla ribellione e più alla perdita della fede, non trovando nulla contro cui ribellarsi). Latour definisce la sua posizione amoderna e sostiene che la pratica scientifica è ed è stata amoderna, una visione che fa sparire il confine tra il reale scientifico (dell’Occidente), l’etnoscienza e le altre espressioni culturali (tutto il resto). La differenza riappare, ma con una geometria significativamente diversa — quella delle scale e dei volumi, cioè le differenze di dimensioni tra entità «collettive» fatte di umane/i e non umane/i — piuttosto che in termini di un confine tra scienza razionale ed etnoscienza.
Questa modesta svolta o cambiamento tropico non elimina lo studio della pratica scientifica dall’agenda degli studi culturali e dell’intervento politico, ma ve lo immette con maggiore convinzione. Su tutto, l’attenzione si concentra con chiarezza sulla disuguaglianza, proprio dove più pertinente agli studi scientifici. Inoltre, l’aggiunta della scienza all’agenda degli studi culturali non lascia intatte le nozioni di cultura, società e politica, tutt’altro. In particolare, non abbiamo intenzione di fare una critica della scienza e delle sue costruzioni della natura basandoci su una ininterrotta fiducia nella cultura o nella società. Sotto le vesti del costruzionismo sociale, questa fiducia ha fondato la principale strategia dei/lle radicali della scienza di sinistra, di femministe e antirazziste/i. Rimanere ancorate/i a una tale strategia, tuttavia, vuol dire farsi abbagliare dall’ideologia dell’illuminismo. Non accadrà di approcciare la scienza come costruzione culturale o sociale, come se la cultura e la società fossero categorie trascendenti, non più della natura o dell’oggetto. Al di fuori delle premesse dell’illuminismo — vale a dire, del moderno — le coppie binarie di cultura e natura, scienza e società, tecnico e sociale perdono le loro qualità co-costitutive e oppositive. Nessuno dei due può spiegare l’altro: «invece di rappresentare la spiegazione, Natura e Società sono ora considerate come conseguenze storiche del movimento collettivo delle cose. Tutte le realtà interessanti non sono più catturate nei due estremi, occorre cercarle nella sostituzione, nel cambiamento di genere, nelle traslazioni, attraverso le quali le/gli attanti spostano le loro competenze» (Latour, 1990, p. 170). Quando viene negata fiducia ai presupposti del moderno, entrambi i termini delle coppie binarie collassano l’uno nell’altro come in un buco nero. Tuttavia cosa accade loro nel buco nero, per definizione, non è visibile dal terreno che condividono modernità, modernismo o postmodernismo. Ci vorrà un viaggio fantascientifico e superluminale verso l’altrove per trovare nuovi e interessanti punti panoramici. Latour e io concordiamo sul fatto che in quel pozzo gravitazionale, in cui la Natura e la Società come transcedentali scompaiono, si trovano attori/attanti di diversi e meravigliosi tipi. Le loro relazioni costituiscono l’artefattualismo che sto cercando di abbozzare.
8Per una visione completamente diversa della «produzione» e della «riproduzione» di quella sancita da tanta teoria politica ed economica (e femminista) occidentale, si veda Marilyn Strathern (1988, pp. 290-308).
9Chela Sandoval sviluppa le distinzioni tra coscienza oppositiva e differenziale nella sua tesi di dottorato presso la University of California a Santa Cruz, si veda anche Sandoval 1990.
10Per questo passaggio sono molto debitrice a Luce Irigaray e alla meravigliosa critica, contenuta in Speculum, al mito della caverna. Sfortunatamente Irigaray come quasi tutte/i le/gli europee/ei e americane/i dopo il consolidamento avvenuto intorno alla metà del XX sec. del mito di un «Occidente» originatosi in una Grecia classica non contaminata da radici semitiche e africane, da trapianti, colonizzazioni o prestiti commerciali, non ha mai messo in questione lo statuto «originale» della paternità platonica della filosofia, dell’illuminismo e della razionalità. Considerato che l’Europa fu colonizzata prima dagli/lle africani/e, quest’elemento narrativo storico avrebbe dovuto cambiare la storia della nascita della filosofia e della scienza occidentali. Il libro di straordinaria importanza di Martin Bernal, Black Athena, vol. 1, The Fabrication of Ancient Greece, 1785-1985 (1987), ha segnato l’avvio di una rivalutazione innovativa delle premesse fondati il mito dell’unicità e dell’auto-generazione della cultura occidentale, che di sicuro comprendono le vette dell’uomo capaci di farsi da sé, la scienza e la filosofia. Il contributo di Bernal è un resoconto del ruolo determinante giocato da razzismo e romanticismo nella costruzione della storia della razionalità occidentale. Ironicamente, Martin Bernal è figlio di J. D. Bernal, il principale biochimico e marxista britannico attivo prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, che in Science in History, opera in quattro volumi, sosteneva, in modo commovente, la razionalità superiore di una scienza liberata dalle catene del capitalismo. Scienza, libertà e socialismo avrebbero dovuto essere, alla fine, l’eredità dell’Occidente. Nonostante tutti i suoi difetti, sarebbe stata di certo migliore della versione di Reagan e Thatcher! Si veda Gary Wersky, The Invisible College: The Collective Biography of British Socialist Scientists in the 1930s (1978).
Famoso tra la sua generazione per le sue appassionate relazioni eterosessuali, J.D. Bernal, nell’immagine della seconda nascita dell’illuminismo esplicitata con tanta ironia da Irigaray, ha scritto la sua visione del futuro in The Word, the Flesh, and the Devil come una speculazione fondata sulla scienza che vede evolvere gli esseri umani in intelligenze disincarnate. Hilary Rose, in Talking about Science in Three Colors: Bernal and Gender Politics in the Social Studies of Science (1990), discute questa proiezione e la sua importanza «per la scienza, la politica e i silenzi». J. D. Bernal è stato inoltre attivo sostenitore di donne scienziate indipendenti. Rosalind Franklin si è trasferita nel suo laboratorio dopo che il suo lavoro cristallografico sull’acido nucleico fu rubato dall’esplicitamente sessista ed eroico James Watson, che nel frattempo si preparava alla fama immortale e luminosa della Doppia Elica degli anni Cinquanta e Sessanta e la sua replica degli anni Ottanta e Novanta, il Progetto Genoma Umano. La storia del DNA è stata un racconto archetipico sull’illuminazione moderna accecante e sulle sue origini prive di vincoli, disincarnate, autoctone. Si veda Ann Sayre (1975); Mary Jacobus (1982); Evelyn Fox Keller (1990).
11Sulla tesi secondo la quale la natura è un’attrice sociale si veda Elizabeth Bird (1987).
12Attante non significa attore. Come spiega Terence Hawkes nella sua introduzione a Greimas, le/gli attanti operano a livello della funzione, non del personaggio. Diversi personaggi in una narrazione possono formare un singolo attante. La struttura della narrazione genera i propri attanti. Nel problematizzare quale tipo di entità possa essere la «natura», mi metto alla ricerca di contrabbandieri e di una grammatica storica mondiale, la cui struttura profonda potrebbe rivelarsi a dir poco una sorpresa, una truffa ben riuscita. I/le non-umani/e non sono necessariamente attrici/ori nel senso umano nel termine, ma sono parte del collettivo funzionale che forma un attante. L’azione non è tanto un problema ontologico quanto semiotico. E forse questo vale sia per gli esseri umani sia per i non umani, è un modo di guardare le cose capace di offrire fuoriuscite dall’individualismo metodologico, corollario delle teorie liberali sull’agency che si concentrano esclusivamente su chi sono gli agenti e gli attanti.

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