Concatenare lo spazio

Miwon Kwon tra specificità del luogo e nomadismo

Santino Drago, Asilo politico (2013), MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove - Foto di Giorgio Benni
Santino Drago, Asilo politico (2013), MAAM Museo dell'Altro e dell'Altrove - Foto di Giorgio Benni.

Quello della storica dell’arte di origine sudcoreana è senz’altro uno dei tentativi più compiuti degli ultimi decenni di fornire una lettura generale del fenomeno del passaggio ad una concezione non più neutra e neutrale – e quindi idealistica – del rapporto tra opera e spazio, e ciò malgrado lo stesso oggetto della sua ricerca, prima ancora che i modi attraverso i quali ricostruisce tale transizione, non possono che risentire dei limiti della impostazione tipicamente americana che risale alla lettura formalistica delle avanguardie storiche europee di Alfred Barr e del suo MoMA prima ancora che alla nozione di autonomia dell’opera di Clement Greenberg che infine riduce il concetto di avanguardia a quello di modernismo. D’altra parte tale impostazione ha ormai ampiamente colonizzato, di ritorno, anche gli studi italiani da almeno un quindici-vent’anni, fenomeno cui nulla toglie la circostanza per cui Un luogo dopo l’altro. Arte site-specific e identità localizzativa (postmedia books, 2019) appaia tradotto in italiano a diciotto anni di distanza dalla sua prima edizione americana (2002), in virtù dell’impegno di Francesca Guerisoli, una delle storiche dell’arte italiane più attente al focus del libro di Miwon Kwon, nonché di una delle poche case editrici italiane, postmedia, che sia impegnata in una significativa opera di importazione di testi ormai classici della critica d’arte contemporanea americana e straniera in generale.

Relativamente prevedibile così, per chi abbia familiarità con certi ambiti di studi ed abbia coscienza delle peculiarità date dalla specificità geo-storica da cui provengono, risulta la genealogia della sitospecificità cui è dedicato il primo capitolo. Essa passa cioè per la temperie minimalista e concettuale, per la critica istituzionale – essendo accorta a non considerare solo il canone ormai consolidato alla fine del secolo, ovvero Michael Asher, Marcel Broodthaers, Daniel Buren, Hans Haacke, ma non lasciandosi sfuggire Robert Smithson e, tanto più da donna, la peculiarissima critica istituzionale improntata alla condizione femminile di Mierle Laderman Ukeles – per giungere ai soggetti critici delle istituzioni di età postmoderna – o della seconda ondata della critica istituzionale – come Lothar Baumgarten, Renée Green, Jimmie Duram e Fred Wilson, i quali fanno transitare ampiamente nel discorso dell’indagine-intervento dello/sullo spazio «i retaggi dello schiavismo, del razzismo e della tradizione etnografica, o come Silvia Kolbowski, Group Material, Andrea Fraser, Christian Philipp Müller, i quali, insieme alla stessa Green, propongono «riflessioni su aspetti della pratica site-specific come sito in sé, indagando la sua validità in rapporto agli imperativi estetici, alle esigenze istituzionali, alle ramificazioni socioeconomiche o all’efficacia politica». A questi bisogna aggiungere Mark Dion, la cui operazione On Tropical Nature (1991), sulla quale la Kwon si sofferma, mi pare assai esemplificativa del rapporto con la generazione precedente nel momento in cui la si raffronta alla poetica di Smithson legata ai Sites e ai Non-Sites.

Già con il secondo capitolo si entra in un territorio meno contaminato, e quindi più stimolante per gli enigmi che pone, nella misura in cui il nodo problematico non trova più il suo centro negli anni Sessanta-Settanta, e quindi nell’essenza stessa del site-specific, bensì nel suo destino successivo alla consacrazione dei pionieri. Eloquente è in tale frangente la scelta dell’autrice di parlare di una vera e propria questione di scardinamento. Assai curioso ed esemplificativo in tal senso è l’episodio che vede contrapposti nel 1990 i minimalisti Carl Andre e Donald Judd al loro collezionista Giuseppe Panza di Biumo, reo di aver «autorizzato gli organizzatori della mostra a ricostruirle (le loro sculture) in loco sulla base di istruzioni dettagliate», onde schivare «i costi e le difficoltà per l’imballaggio e la spedizione di opere così imponenti dall’Italia alla California». Da una parte la Kwon chiarisce che il vero motivo del disconoscimento di quelle opere opposto dai due artisti non ha a che fare con il loro rimanere «orfane del sito della loro installazione iniziale», bensì con l’ «assenza degli artisti nel processo della loro (ri)produzione», dall’altra non può fare a meno di rilevare come in tal modo il «loro teorema era stato portato a una delle sue logiche conclusioni».

Ma fin qui siamo ancora nel campo di uno scardinamento che etichetterei come traumatico. Esso si volge in scardinamento dolce nella generazione successiva emergente tra gli anni ottanta e novanta. La studiosa americana pensa ora al paradigma delle «pratiche site-oriented»: l’artista in questione – «non più un produttore di oggetti legato al suo studio, ma un professionista che lavora principalmente su commissione» – «riuscirà nel proprio intento, si troverà a viaggiare costantemente come freelance, lavorando spesso su più progetti site-specific contemporaneamente e girando il mondo come ospite, turista, avventuriero, critico temporaneo e pseudo-etnografo tra San Paolo, Parigi, Monaco, Londra, Chicago, Seul, New York, Amsterdam, Los Angeles, e così via». Si tratta insomma di operazioni che, pur tentando di aprire vasti orizzonti, traggono la loro forza – tra l’altro – dal loro essere ancorati a precisi limiti cronologici e geografici. Così è per Mining the Museum (1992) di Fred Wilson. Museum Highlights: A Gallery Talk di Andrea Frazer appare invece forse il caso più compiuto di artisti che offrono non opere «ma servizi estetici, spesso critico-artistici».

Col terzo capitolo la questione del rapporto tra arte e spazio si allarga finalmente allo spinosissimo ed affascinante problema della dimensione pubblica, ove naturalmente tutto si complica, giacché, se entro spazi-tempi più o meno deputati all’arte gli attori in dialogo si riducono a soggetti relativamente implicati su base volontaria, nel caso di contesti che appartengono ad ogni cittadino – anche, in circostanze estreme, a chi detesta l’arte a prescindere – è chiaro che la matassa cresce su di sé attraverso ulteriori, intricatissimi nodi. In principio – tra metà anni sessanta e metà anni settanta – sono prevalentemente «sculture astratte moderniste che erano spesso repliche ingrandite di opere normalmente visibili in musei e gallerie». I nomi più tipici sono Isamu Noguchi, Henry Moore, Alexander Calder: in genere «pezzi rappresentativi di artisti maschili di fama internazionale. L’uscita da un’arte pubblica intesa come mera arte nello spazio esterno si ha anche attraverso passaggi come la modifica delle linee guida del NEA, che, pur in toni alquanto flebili, nel 1974 afferma «che le opere d’arte pubblica dovevano essere adeguate al sito corrispondente». E qui, probabilmente – e malgrado aspettative di segno opposto -, la strada che si apre si fa più irta che mai! La Kwon sceglie di esemplificare la durezza di questo cimento con due vicende di due artisti sulla carta animati da intenti opposti eppure accomunati dal loro essere comunque critici delle logiche oggettuali ed espositive moderniste, oltre che dal fallimento decretato dal loro pubblico.

La prima è quella ormai assai nota di Tilted Arc di Richard Serra, esposta nella Foley Federal Plaza di Manhattan dal 1981, ma rimossa definitivamente nel 1989, cedendo all’enorme malcontento che la sua presenza genera nella cittadinanza. Per l’artista americano essa è site-specific in quanto, chiarisce senza mezzi termini, alcuna dislocazione in altro luogo sarebbe possibile se non stravolgendone il significato. Non di meno egli, contro una accezione allora prevalente di arte pubblica come «urbanistica unificata e utile […] modello di armonia sociale e unità», pensa il suo intervento nella chiave di «un antagonismo nel quale l’opera d’arte si pone come un interrogativo attivo – manifesta un giudizio (presumibilmente negativo) – circa le condizioni sociopolitiche del sito. Ecco perché, solo qualche anno dopo «quando si trattò di scegliere un artista per la commissione di Percent for Art per la stazione di polizia del 44º Distretto nel South Bronx, John Ahern apparve come una scelta scontata». Tom Finklepearl, già direttore del programma Percent for Art di New York, ricorda infatti che egli «viveva vicino alla stazione, godeva di una buona reputazione critica e vantava un’esperienza pluriennale di interazione con la comunità […] Ahern corrispondeva perfettamente all’identikit dell’artista post-Serra». E invece le cose volgono in maniera completamente diversa rispetto ad ogni più fosca aspettativa: se per l’artista le tre sculture raffiguranti «Daleesha, una ragazzina afro-americana sui pattini; Corey, un grosso afro-americano a torso nudo con una palla da basket sottobraccio chinato su un gigantesco stereo portatile; e Raymond, un magro portoricano con una felpa con cappuccio accovacciato accanto al suo pit bull» sono «soggetti che meritavano di essere celebrati come sopravvissuti alle strade malfamate. La sua intenzione era catturare la loro umanità e renderne visibile la bellezza agli agenti di polizia», per molti residenti esse rappresentano piuttosto «esattamente il genere di persone dalle quali avrebbero voluto protezione da parte della polizia».

Il quarto capitolo costituisce sostanzialmente una originale lettura dell’emersione della New Genre Public Art, teorizzata dall’artista Susan Lacy, e del suo emblematico evento Culture in Action: New Public Art in Chicago (1993), a cura di Mary Jane Jacob. La vulgata spesso prevalente vuole tutto ciò una reazione in senso aperturista e partecipativo in contrapposizione alle ermetiche e divistiche istanze di Serra. La Kwon problematizza tale narrazione a cominciare dalla convinzione per cui «gli aspetti sintomatici di Culture in Action […] si evidenziano soprattutto» se confrontata «con In Public: Seattle 1991, un’altra esposizione di arte pubblica e di dimensioni e ambizioni analoghe». Se quest’ultima «puntava principalmente ad ampliare la tipologia delle sedi pubbliche per l’intervento artistico, identificando una vasta gamma di siti insoliti in città […], Culture in Action abbandonava la premessa prevalente secondo la quale gli architetti e i progettisti sono esperti mediatori tra l’arte e gli spazi urbani», riconoscendo «piuttosto nella comunità la figura d’autorità relativa a questi aspetti». Inoltre la Kwon non manca di notare, sulla scorta della critica Arlene Raven, come molti dei soggetti coinvolti siano più inclini a collocare le loro pratiche nell’alveo della storia dell’avanguardia – costruttivismo russo, Bauhaus tedesco – che di quella dell’arte pubblica, nonché che molti critici e artisti – a mio avviso a ragione – sostengono che non si è di fronte né ad «un movimento nuovo nell’ambito artistico», né ad una sensibilità estetica nuovamente politicizzata», bensì, semmai, ad una situazione «in cui una modalità pratica ben definita, ma fino a quel momento sottovalutata dall’arte mainstream, ottiene finalmente un’accettazione sociale più ampia».

Se la Kwon dosa sapientemente per tutto il corso della trattazione elaborazione teorica, narrazione storica e riflessione sulla critica, a quest’ultimo ambito è specificamente dedicato il quinto capitolo. Ella discute così sui dubbi di Hal Foster circa il mutuare dall’antropologia «determinate strategie metodologiche» da parte dell’arte contemporanea, giacché, per il critico americano, «il ruolo quasi antropologico stabilito per l’artista può promuovere tanto la presunzione quanto la critica dell’autorità etnografica». Concede spazio ai rilievi assai più duri di Grant Kester, che addita «la retorica degli artisti comunitari che si propongono come il veicolo di un’espressività non mediata da parte di una determinata comunità», conducendo ad «un’appropriazione potenzialmente abusiva della comunità ai fini del consolidamento e avanzamento dell’agenda personale dell’artista», tesi tanto più confortata dall’imbarazzante fraintendimento tra la Green e la Jacob, la quale, nell’ambito di Culture in Action pensa alla prima esclusivamente nei termini della sua identità afro-americana, sottovalutando conseguentemente l’interesse dell’artista «per la storia architettonica della città, in particolare l’eredità di Frank Loyd Wright e della sua Prairie School». D’altra parte gli attacchi di Kester sono smussati dalla replica dell’artista Martha Fleming, per la quale questi non attaccherebbe «tanto la pratica dell’arte basata sulle comunità in sé ma una certa caratterizzazione discorsiva della stessa, la sua mercificazione e promozione come nuova arte pubblica» da parte di critici e curatori che sono abili cooptatori. C’è infine spazio per ricordare la problematicità della stessa nozione di comunità per i suoi fondamenti idealisti, come fa la filosofa femminista Iris Marion Young, nonché per considerare le posizioni assai radicali, oserei dire neo-situazioniste, del Critical Art Ensamble (CAE): «burocrati dell’istituzione selezionata rappresenteranno la comunità e plasmeranno il progetto secondo le loro indicazioni nel corso di un negoziato che tiene anche conto dei desideri dell’artista. Una volta completato questo processo, chi si è espresso davvero? Dato che la parte sostanziale del negoziato relativo all’indirizzo politico non viene svolto con gli individui del territorio ma con chi sostiene di rappresentarli, di nuovo una modalità definita dai parametri burocratici imposti al progetto da chi devolve i fondi, quanta azione diretta e autonoma rimane davvero?».

Il sesto e conclusivo capitolo svela forse il motivo più profondo della scelta di un titolo come Un luogo dopo l’altro, non temendo di lasciar trapelare elementi di perplessità che acquistano persino un certo quid di ironia: «Qualche tempo fa ho capito che molti miei amici nel mondo dell’arte e in quello accademico misurano ormai il successo e la redditività del loro lavoro sulla quantità di miglia frequent flyer accumulate. Più viaggiamo per lavoro, più siamo invitati da istituzioni in altre parti del paese e del mondo a portare la nostra presenza e i nostri servizi, più cediamo alla logica del nomadismo, potremmo dire, più ci sentiamo voluti, desiderati, convalidati e rilevanti». La riflessione scorre incontrando l’appello di Henri Lefebre ad un nuovo spazio che nasce solo accentuando le differenze; una allora recente Lucy Lippard «che offre una visione olistica del luogo come una sorta di testo dell’umanità, come le intestazioni tra natura, cultura, storia e ideologia», cui si contrappone la celebrazione della «condizione nomade» che, spesso sulla scorta teorica di Deleuze e Guattari, interessa più o meno quegli artisti che più sopra ho ricondotto alla seconda ondata della critica istituzionale; o ancora il Don De Lillo di Valparaiso, ove il protagonista del romanzo diviene una celebrità mediatica in seguito allo scambio tra Valparaiso in Indiana – sua originaria destinazione di lavoro – e Valparaiso in Cile – ove il volo di linea lo conduce per errore.

Le ultime parole della studiosa di origine asiatica sono tutto tranne che una conclusione unilaterale: «Sembra storicamente inevitabile che dobbiamo lasciarci alle spalle la nozione nostalgica di un sito e di un’identità essenzialmente legati alle realtà fisiche del luogo. Questa nozione, se non ideologicamente sospetta, è fuori sincrono rispetto alla descrizione prevalente della vita contemporanea come rete di flussi privi di ancoraggi». Non di meno «il fantasma di un sito come luogo effettivo rimane, e il nostro attaccamento psichico abituale ai luoghi (nella memoria, nel desiderio) può non essere una mancanza di sofisticazione teorica ma un modo di sopravvivere». Il punto per lei non è insomma «scegliere da che parte stare», bensì «riuscire a pensare alla gamma di contraddizioni apparenti e insieme ai nostri desideri contraddittori nei loro confronti; dobbiamo intendere, in altri termini, le apparenti opposizioni in quanto relazioni di sostegno».

Miwon Kwon emigra negli Stati Uniti all’età di dieci anni – come resistere alla tentazione di ricondurre tutto il suo studio sul luogo ed il dislocamento alla sua biografia? Il primo embrione di questo volume risale al 1997, ricorda la Guerisoli nella prefazione, quando la Kwon pubblica «un articolo sul site-specific su October – la prestigiosa rivista del MIT – di cui oggi è membro del consiglio di amministrazione», mentre la sua prima stesura «risale al 1998, anno in cui Kwon ha ottenuto il Ph.D in Storia e Teoria dell’architettura presso l’Università di Princeton». Considerando che il testo che si legge in traduzione italiana risale, come osservato, a quattro anni più tardi, probabilmente sarebbe difficile aspettarsi che risulti più attuale rispetto al nostro presente. In questo quasi ventennio che ci separa da esso è certo passato lo tsunami delle nuove tecnologie, e in particolare dei social network, a cambiare profondamente i nostri modi di vita. A questo potremmo aggiungere la piccola pecca della studiosa di pensare praticamente solo ed esclusivamente ad un rapporto tra arte e luogo in termini di spazio reale convenzionale, mentre nella seconda metà degli anni novanta – lo sappiamo – la net-art si connota già come un fenomeno notevole. Ma ciò non toglie l’enorme importanza che lo studio di un libro del genere rappresenta per un ricercatore interessato alla peraltro a mio avviso cruciale concatenazione tra creatività e contesto. Le conclusioni che abbiamo appena ascoltato assumono inoltre un nuovissimo peso alla luce di tutto il dibattito che il Covid ha incoraggiato circa la polarizzazione insostenibile nelle grandi città e la necessità di dislocare, dinamica che non dovrebbe però essere disgiunta da ogni opportunità di nuovo radicamento.

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