Cosa può un’amicizia?

Pratiche ecosofiche e potenza istituente dei corpi

ci vediamo mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo, Mazzotta, Milano 1978
AAVV, Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, Mazzotta (1978).

Uno degli apporti più innovativi della riflessione di Félix Guattari alla questione ecologica è di averla smarcata da una impronta strettamente «ambientalista» operando un’azione di denaturalizzazione delle analisi e degli oggetti di studio ecologici. In questo senso, la sua proposta teorica, nota come Ecosofia, si articola su tre livelli complementari che determinano, ciascuno, tanto un ambito d’analisi, quanto un campo di operazioni pratico-teoriche. Molti sono i livelli sui quali si potrebbe (e forse, data la carenza di studi in proposito, si dovrebbe) imbastire un lavoro tanto teorico quanto politico. Vorrei, data la natura di questo intervento, soffermarmi su alcuni aspetti rilevanti dell’operato guattariano. Una delle sue intuizioni più importanti è senza dubbio lo spostamento «critico» sull’idea di Capitalismo Mondiale Integrato. Non mi soffermo sugli aspetti più esegetici, ma mi interessa rilevare la capacità teorica dell’ecosofia guattariana di porre, nella questione del pensiero critico, aspetti che tradizionalmente erano tenuti ai margini del dibattito teorico-politico e di integrare (appunto) dentro l’analisi ecologica il problema del conflitto e, dunque, dell’istituzione.

Lungi dal pensare al Capitalismo come un progresso lineare ed evolutivo, la concezione guattariana punta – in una vicina lontananza con Michel Foucault – a includere nella critica al capitalismo anche tutti quei processi «molecolari» che non sono riconducibili alle condizioni classiche dell’accumulazione capitalistica. Ponendo questi fenomeni molecolari come macchine di significazione capitalistica, l’ecosofia guattariana risponde ad una duplice sfida posta al marxismo ortodosso dai fenomeni socio-politici della fine del secolo scorso: da un lato, il problema della decolonizzazione, dall’altro quello dei movimenti femministi. Senza pretese esaustive, vorrei sottolineare come entrambe le questioni abbiano fatto emergere forme di soggettività differenti rispetto all’immagine classica dell’Uomo borghese (con la sua virilità e il suo pallidume epidermico) come istanza universale, nuove modalità dello zôon politikòn irriducibili all’immaginario che la modernità aveva costituito (e sulla base del quale le lotte sociali si erano istituite in Euoropa almeno fino al famoso Maggio ’68).

Da un lato, tanto al di fuori quanto allo stesso interno della città borghese esistono e si sviluppano forme di esistenza urbane irriducibili alle forme canoniche dell’uomo: la decolonizzazione, così, ha mostrato come, su un piano esterno alla città borghese, anche le forme di esistenza tradizionalmente considerate barbare hanno modalità urbane di organizzazione (e che queste stesse forme urbane hanno un alto portato conflittuale e resistente rispetto agli apparati di cattura capitalistici), mentre, su un piano interno, la forma dell’uomo non è l’unico modo esistenziale dell’abitare la città: i processi di divenire minoritario (il cui punto d’avvio sarebbe il divenire-donna delle soggettività) mettono in luce una dimensione nomadica che si espleta proprio dentro al vivere urbanizzato. Barbari, nomadi e civilizzati catturati in un processo univoco, ma non unidirezionale, che presenta punti di rottura e di attrito, rompendo le classiche partizioni dualistiche tra Città-Campagna, Sedentarietà-Nomadismo, Civiltà-Barbarie, Uomo-Donna, ecc.

Restiamo sul tema del divenire-donna. Certamente complesso e tutt’altro che affrontabile in poche battute, individua nella rottura con la struttura significante uomo – come istanza universale e modello a cui adeguare le forme della soggettività – la sua potenzialità teorico-politica: l’esser donna non ha nulla di naturale, né di puro arbitrio, ma indica, invece, la portata esistenziale del piano politico, non demandabile ad istanze terze: la politica non rimanda né all’amministrazione della polis, né all’organizzazione partitica avanguardistica, bensì al piano esistenziale delle forme di vita. Il potere patriarcale, sul quale secondo Guattari (e Deleuze) si innesta lo sviluppo capitalistico (un innesto, evidentemente, e non Aufhebung), si espleta primariamente attraverso il furto dei corpi: è attraverso una serie di procedimenti assoggettanti sulla corporeità che agisce l’apparato di cattura patriarcale (e capitalistico). In questo senso, tanto un uomo quanto una donna – qui intesi in senso semplicistico come il maschio e la femmina dell’animale umano – sono assoggettati alle pratiche di dominio e di esproprio delle corporeità (seppure con finalità differenti: i corpi dei maschi forgiati, nel modello uomo universale, per diventare attivi, quelli delle femmine per diventare passivi). È attraverso l’esplicazione corporea dei processi politici che si rende manifesta la politicità dell’esistenza. Da un piano ecosofico, il legame è esistenza-corpi-politica: sono le forme di vita (composizione delle tre istanze) ad essere tanto lo spazio delle catture appropriative, quanto la dimensione di fuga e rottura di queste stesse catture.

Lo spazio politico si determina come un campo di lotta tra apparati di cattura e linee di fuga. Ma non devono essere intese come forme dualistiche, ed è questa la portata ecosofica a mio modo di vedere più interessante: ogni cattura, come ogni fuga, accadono sempre in un ambiente, sono sempre concatenate agli spazi d’azione dei corpi. Non mi è possibile approfondire, ma è opportuno segnalare come la nozione di ambiente non abbia nulla in comune con quella di Natura. Un ambiente diventa lo spazio di gioco (spielräume) dei corpi. Troviamo qui il legame segnalato in apertura: i corpi dell’animale umano (tralasciando, ovviamente, tutte le problematiche per identificare un corpo umano rispetto ad uno non-umano…) agiscono primariamente in un ambiente il quale è, quanto meno in massima parte, urbano. Divenire-donna significa anche rompere con l’idea di una natura edenica posta al di fuori dei contesti urbani: l’ambiente inteso come spielräume è piuttosto un ambito d’azione, uno spazio prassico di interazione (in questo modo, la nozione di Spielraum permette di integrare nella questione ambientale anche gli aspetti tecnologici e artificiali tradizionalmente esclusi da una concezione naturalistica di ambiente).

Aver messo in risalto che fuori dalle città borghesi ci sono forme altre di aggregazione urbana permette di risemantizzare il concetto di ambiente, denaturalizzarlo e dunque non darlo mai per scontato. L’azione sugli ambienti-Spielräume è sempre un atto politico – tanto nella cattura quanto nella fuga, se ci è concessa la semplificazione – e questo atto politico comporta l’urgenza di far divenire minoritarie quelle soggettività interessate dalle determinazioni degli ambienti. Vi è una centralità politica della «relazione», rispetto tanto alle forme di oggettivismo politico quanto rispetto alle forme di avanguardismo soggettivista (il che non significa negarle in toto, ma di costruire pratiche politiche capaci di uscire dalle varie impasse): le pratiche d’esistenza sono sempre pratiche politiche.

Maria Pinińska-Bereś, Landscape Annexation, Świeszyno near Miastko, 1980.

Relazione e pratiche: le forme d’esistenza devono sempre essere considerate ecologicamente, ovvero ad essere politicamente centrali sono le interazioni tra differenti forme di vita e tra queste e i vari ambienti, o stratificazioni ambientali (ambienti tecnici, semiotici, emotivi, ecc.). Detto in altri termini, occorre lavorare politicamente sulle relazioni tra le modalità corporee dell’esistere e gli affetti (in senso spinoziano) che ne variano le possibilità e posizionamenti: un corpo può essere maggioritario o divenire minoritario, un corpo è mai negro, donna, virile, nevrotico o psicotico «per sé», ma sempre dentro a concatenamenti collettivi di enunciazione.

Un ambiente è un campo di potenza affettiva dei corpi e ne varia le potenze espressive. In questo senso l’ecosofia trova una importante articolazione nell’ecologia ambientale che non può esprimersi se non attraverso una dimensione micropolitica che non passa per gli organi maggioritari dei tribunali o dei partiti, ma, come diceva Guattari, attraverso gli arcani del quotidiano, ovvero attraverso le relazioni affettive, familiari, sportive, ecc.

La nozione di micropolitica come ecologia della politicità dell’esistenza, di contro ai vari dispositivi disciplinari che, invece, individualizzano i corpi, isolandoli in microcosmi individuali, desituati e custoditi nelle loro proprietà (i corpi come proprietà soggettive delle persone o proprietà oggettive delle cose). La micropolitica contro la dimensione neghecologica degli apparati di cattura: pratica ecosofica di resistenza alla individualizzazione dei corpi (dentro e contro, ad es., una messa a valore della governamentalità neo-liberale, ma non solo…) ma anche pratica di trasformazione degli ambienti – e dunque degli affetti -, degli spazi di gioco (spielräume) dei corpi.

Uno Spielraum, non è la Natura, ma uno spazio di interazione tra molteplici ed eterogenee corporeità in continua interazione e composizione. Vi è una doppia cattura tra corpi e ambienti, che fa sì che al variare delle composizioni corporee, varino anche gli ambienti, e viceversa. Ho accennato in precedenza al fatto che la decolonizzazione ha mostrato modi d’esistenza urbani irriducibili alla forma del Soggetto Trascendentale Bianco e Maschio. In questo senso, un altro paradigma che possiamo estrapolare da queste considerazioni è che un corpo umano è pur sempre un corpo urbano, perché urbano è lo spielräume dell’esistenza umana. In questo senso, la nozione di umano si ibrida con altre nozioni – l’umano si ibrida sempre con ciò che umano non è, fino al punto da far divenire impercettibile la soglia di distinzione – così da perdere la caratteristica anatomica, per diventare una questione affettiva.

Urbano, così, indica la composizione di corpi di varia natura ed è nell’urbano (dentro e contro come modalità di costruzione del fuori) che i corpi si incontrano e si scontrano. In questo campo di immanenza, dalle infinite superfici e dai mille piani, si effettuano le pratiche politiche, ed è qui che variano le forme di vita. Muovendosi su queste superfici che stratificano il tessuto urbano – lo piegano e lo dispiegano, lo lisciano e lo striano di continuo – i corpi si compongono tra loro, una composizione che si attua tra catture e fughe, la cui interazione porta ad esiti inattesi e spesso non prevedibili. Proprio questa imprevedibilità delle composizioni comporta un problema di ragion pratica ecosofica: cosa possa un corpo ibridato con un altro corpo non è possibile prevederlo in maniera oggettiva, né è possibile rimandarlo ad un dover essere puramente soggettivo. Occorre la capacità di creare composizoni, servono molteplici e variegati atti di creazione: è questione di sperimentazione.

La pratica ecosofica è sempre un atto di creazione. E in questo senso torna centrale un tema classico della filosofia europea: quello dell’amicizia. Certo, l’amicizia può declinarsi in molti modi, ma vorrei sottolineare come la relazione amicale è in stretta relazione con l’atto di istituire nuove striature dello spazio di gioco intercorporeo, in quanto l’amica o l’amico rompe con la dualità Io-Altro, cioè con quelle interazioni di proprietà irriducibili. La pratica amicale è così un’arte delle composizioni, un’arte del fare muta e dell’istituire forme dello stare insieme irriducibili all’individualismo soggettivo e alle forme di collettivizzazione forzate. Amicizia come pratica ecosofica per comporre corpi senza organi che nelle pratiche micropolitiche – ovvero negli arcani del quotidiano – modificano gli ambienti nei quali queste pratiche si esplicano.

Amicizia come ragion pratica, e quest’ultima come arte compositiva istituzionale: un’arte dei corpi per e con i corpi, un’arte atta a trasformare gli spazi di azione e dunque le potenze affettive e vitali delle forme soggettive. L’amicizia come il modo più intenso per sperimentare la potenza di vita di una molteplicità imprevista e inattesa di corpi. La domanda ecosofica fondamentale diventa dunque: cosa può un’amicizia?

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