Il convegno Eco/logiche che si sarebbe dovuto tenere il 4 aprile a Milano presso Cox 18 è stato ovviamente rimandato a causa dell’emergenza in cui ci siamo venuti a trovare. Con il prolungarsi >…
Madame la Terre e Monsieur le Capital
In un mondo stregato, deformato e capovolto, si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e di Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose.
Karl Marx, libro terzo del Capitale
Ecofemminismo: note a margine dell’arte
«L’ecologia è una questione femminista. Io vedo questi due interessi (ecologia e femminismo) intrecciati, per me il femminismo è una filosofia politica – un modo di pensare e di essere che rifiuta la separazione o la gerarchia tra personale e politico, natura e cultura, corpo e mente, sessualità e spiritualità, umano e non umano – al centro dei valori ecologici». Così l’artista indiana Sheba Chhachhi1 racconta quello che è stato definito femminismo ecologico o ecofemminismo, non solo come un’area di studi accademici che riguarda l’indagine e la comprensione della relazione interconnessa tra la dominazione delle donne e la dominazione della natura. I movimenti delle donne in India sono stati implicati, sin da subito e a differenza di quelli occidentali, nel discorso ecologico (non è un caso che quello più noto, il movimento Chipko contro il disboscamento degli alberi, sia stato guidato da donne).
Il cosiddetto ecofemminismo del «terzo mondo» (K.N. Shoba, Ecofeminist Discourse in Postcolonial India: A Critique of Capitalism, Modernity, and Patriarchy, 2013) o «ecofemminismo indiano» ha il suo riferimento teorico nel conosciuto testo di Vandana Shiva, Staying Alive: Women, Ecology and Survival in India (1988) per la quale il rapporto tra donne e natura sarebbe biologicamente necessario perché la sottomissione del «principio femminile» (detto anche Shakti o Prakriti) che è la «forza vivente che sostiene la vita» sarebbe indispensabile per «gettare le basi per il recupero del principio femminile nella natura e nella società», senza però tenere conto delle strutture patriarcali dentro lo spiritualismo induista e ritenendo che il degrado ambientale indiano sia anche responsabilità del modello neoliberista occidentale. La filosofia politica ecofemminista ritiene che le forme di oppressione, espropriazione e sfruttamento tra le donne e la natura siano profondamente collegate «concettualmente, storicamente, materialmente ma non essenzialmente» (Mallory 2010)2.
L’ecofemminismo è entrato nel dibattito italiano soprattutto attraverso i contributi di Vandana Shiva, anche se è la pubblicazione del 1993, scritta insieme a Maria Mies, che traccia una critica al paradigma sviluppista (capitalista e patriarcale) e i suoi legami con l’oppressione di genere e le lotte delle donne contro lo sfruttamento della Terra, dei corpi, dell’ambiente. Il «punto di vista essenzialista» di Shiva è stato fortemente respinto dall’economista Bina Agarwal come una forma di «ecofemminismo culturale» che avrebbe fornito una versione romantica del ruolo delle donne e il loro rapporto con la natura e l’ecosistema, determinato invece sulla base della classe e della casta piuttosto che qualsiasi connessione necessaria o biologicamente assegnata; ignorando così i profondi squilibri e le disuguaglianze preesistenti come «genere, casta, classe, strutture di potere, privilegi e relazioni di proprietà» che hanno contribuito all’imposizione degli attuali sistemi di dominazione. Quello che Bina Agarwal ha indicato come una forma intersezionale di ecofemminismo definendolo «feminist environmentalist» a partire dai suoi scritti sul diritto alla terra e alla proprietà delle donne, nelle aree rurali e povere dell’India e del Sud del mondo, era anche derivato dalla necessità di migliorare le condizioni di vita e assegnare alle donne subordinate e marginalizzate un empowerment sociale.
Vorrei qui suggerire che il rapporto tra le donne e gli uomini con la natura deve essere inteso come radicato nella loro realtà materiale, nella loro specifica forma di interazione con l’ambiente. Quindi, nella misura in cui esiste una divisione del lavoro e una distribuzione della proprietà e del potere basati su genere e classe (casta / razza), allora gli stessi assi di oppressione di genere e classe (casta / razza) strutturano sia le interazioni delle persone con la natura che gli effetti del cambiamento ambientale sulle persone e la loro risposta3.
Nel pensiero patriarcale – sostiene Agarwal – il femminile è stato identificato con la terra, le donne come esseri vicini alla natura e gli uomini alla cultura. La natura è vista come inferiore alla cultura, così le donne sono ritenute inferiori agli uomini. Nelle egemoniche rappresentazioni del nostro sistema sociale, la dicotomia natura-cultura (come la connessione tra la dominazione e l’oppressione delle donne con la dominazione e lo sfruttamento della natura) altro non è che un costrutto ideologico patriarcale usato per mantenere le gerarchie di genere. L’intensificarsi delle lotte per la sopravvivenza evidenzia le basi materiali di questa connessione tra donne e ambiente, interpretata dall’economista indiana, come articolata da un’organizzazione di produzione determinata da classe/casta/razza, oltre che dal genere. Così costruzioni simbolico-discorsive come quella del femminile e della natura, possono essere viste come una parte di questa strutturazione, ma non come la sua totalità.
Perché le femministe indiane a differenza delle femministe occidentali non esprimono la stessa rabbia?
«La specie dell’umano si è trasformata in una razza di topi senza speranza, ogni topo lotta per raggiungere il vertice della piramide sociale (il cui apice è materialismo puro)» sostiene l’artista indonesiana Arahmaiani4. Nel suo paese, il femminismo, come ha scritto Wulan Dirgantoro, è stato a lungo considerato una forma contro natura di attivismo politico, in rimando alla demonizzazione e all’oppressione dell’organizzazione femminile Gerwani (Gerakan Wanita Indonesia, Movimento delle Donne Indonesiano) da parte del regime militare del Nuovo Ordine. Numerose appartenenti e simpatizzanti di Gerwani sono state massacrate, parallelamente all’eccidio dei comunisti perpetrato dal regime dittatoriale di Suharto. All’inizio del 1983 il Pakistan fu scioccato dal modo brutale con cui le autorità avevano represso una piccola manifestazione avvenuta il 12 febbraio per protestare contro l’introduzione di una legge che, nelle sentenze dei tribunali, assegnava alle donne metà del valore legale della loro testimonianza rispetto agli uomini. L’accaduto aveva portato l’attenzione dell’opinione pubblica sullo spaventoso trattamento delle donne e delle minoranze, che era progressivamente peggiorato dopo il colpo di stato del generale Muhammad Zia-ul-Haq nel 1977. Così nel 1983 un gruppo di quindici donne artiste si era riunito a Lahore nella casa dell’artista e scrittrice femminista Salima Hashmi5, per la stesura del Women Artists of Pakistan Manifesto:
Noi chiediamo a tutte le donne artiste di prendere il loro posto nell’avanguardia della lotta delle donne pakistane per mantenere la loro immagine incontaminata e il loro giusto posto nella società. In modo che possiamo sostituire nella vita della nostra gente la disperazione con la speranza, la brutalità con la comprensione, l’oscurità con la luce e l’anarchia con la cultura, e lasciare al mondo un posto più felice, più bello e più pacifico di quello che abbiamo trovato6.
Il manifesto era una protesta contro la pervasiva misoginia e l’oppressione che avevano sopportato. A causa delle circostanze politiche del tempo non fu mai reso pubblico. Consapevole del clima politico pakistano, la scrittura di Salima Hashmi dà uguale peso all’agenda femminista, alle questioni estetiche e all’eredità del transnazionalismo, indaga la situazione sociale, le leggi repressive, non solo contro il genere ma contro le minoranze, supportando attraverso l’arte la lotta delle donne e l’ottenimento di diritti civili. Suma Chitnis, d’altra parte, suggerisce che la rabbia nel femminismo occidentale è stata un potente strumento e che possa essere compresa solo riconoscendo il divario enorme tra ciò che viene professato a parole dal sistema sessista e patriarcale e ciò che viene praticato attraverso un impegno fattivo per l’uguaglianza nella società occidentale, ancora incentrata su strutturali asimmetrie. Si sofferma inoltre sul carattere gerarchico e plurale della società indiana, sul ruolo dei valori e sulle possibilità e limitazioni di sfruttare la tradizione indiana del movimento delle donne.
Non è il femminismo una nozione occidentale e quindi del tutto irrilevante nell’Asia meridionale? – si chiedono Kamla Bhasin e Nighat Said Khan in un testo pubblicato da Kali for Women (la prima casa editrice femminista in India)7 – una questione, questa, che raramente viene sollevata come domanda: piuttosto si pone come un attacco o qualcosa da non prendere realmente sul serio. Non è un caso che questo tipo di accusa, che racchiude alcune delle ambivalenze dell’universalismo etnocentrico e della «grande narrazione» del femminismo bianco, eterosessuale e di classe media, venga formulata da uomini (e anche donne) che sono di formazione occidentale, hanno frequentato scuole anglo-americane e parlano la lingua dominante, indossando abiti occidentali e così via. È singolare che le stesse accuse, continuano le due studiose femministe, non vengano mai mosse contro la scienza moderna o in generale contro la modernità – che è pur sempre il risultato di una «occidentalizzazione»:
Queste stesse persone, ad esempio, non mettono in discussione le origini straniere dei sistemi parlamentari o presidenziali; dello sviluppo del capitalismo; della proprietà privata e del latifondismo; o dell’ideologia di sinistra. Concesso che il termine «femminismo» non sia nato nel subcontinente indiano; ma poi nemmeno la rivoluzione industriale, il marxismo, il socialismo o, del resto, neppure alcune delle nostre religioni dell’Asia meridionale. Einstein non è nato a Lahore, Marx a Calcutta o Lenin a Dhaka; tuttavia le loro origini occidentali non hanno reso le loro idee irrilevanti per noi. Né dovrebbero essere considerate irrilevanti, perché un’idea non può essere confinata entro limiti nazionali o geografici. In ogni caso, mentre il termine femminismo può essere straniero, il suo concetto rappresenta un processo di trasformazione, un processo iniziato in Asia meridionale nel diciannovesimo secolo come posizione politica organizzata e articolata contro la secolare subordinazione delle donne. Quindi, il femminismo non è qui stato imposto artificialmente da nessuno, né è stato un’ideologia straniera di importazione occidentale.
La coscienza femminista è emersa in Asia durante alcuni periodi storici di intensa rivendicazione politica, specialmente nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, durante le lotte contro il dominio straniero e contro il dispotismo locale dei monarchi feudali. Le voci delle donne contro la subordinazione durante questo periodo assunsero la forma di una serie di istanze: la possibilità di risposarsi per le vedove, il divieto di poligamia, delle pratiche del sati, del purdah e, non ultime, le richieste di educazione e ed emancipazione legale per le donne. Il femminismo non è stato una nozione astratta applicabile a tutte le donne e a differenti latitudini e temporalità. Il punto centrale è che lo slogan «il personale è politico» racconta solo metà della storia delle molteplici dimensioni dell’oppressione di genere che affrontano le donne del terzo mondo, dove a differenza di altri «ismi» il movimento non si è sviluppato da un pensiero teoretico, l’opposizione alle radici storiche del patriarcato (o dei «patriarcati multipli») e alla dominazione maschile passa attraverso risoluzione di tante battaglie femministe per i diritti civili, dall’apporto di attiviste del movimento contro la dote, dalle mobilitazioni per il diritto alla terra e contro la costruzione di dighe, in nome dell’ideale di una società non-sfruttatrice, libera da divisioni di classe, casta, razza e genere.
L’ecofemminismo (anche alla luce dell’attuale ondata femminista transnazionale) è, al di fuori di qualsiasi dimensione essenzialista, sia un movimento anti-globalizzazione dal basso, che una forma di critica ideologica che attinge alla secolare subordinazione delle donne di tutto il mondo nella centralità del lavoro socialmente riproduttivo – dove la separazione patriarcale fra uomo e donna diviene immediatamente separazione capitalistica. «Come il patriarcato, anche l’ecologia è coinvolta nel quadro del dominio»: la posizione di Dalla Costa già alla fine degli anni Ottanta ha preso in considerazione la natura interconnessa a categorie sociali come genere, razza e classe, con questioni come il colonialismo nelle grandi lotte per il diritto alla terra come bene comune o anche Silvia Federici quando afferma come «le eco-femministe hanno dimostrato che esiste una profonda connessione tra lo svilimento delle faccende domestiche, la svalutazione della natura e l’idealizzazione di tutto ciò che è prodotto dall’industria umana e dalla tecnologia»8. Ariel Salleh nel suo Ecofeminism As Politics: Nature, Marx and the Postmodern preferisce parlare di «sistema patriarcale capitalista»: l’oggettivazione, lo sfruttamento e la distruzione della natura non saranno mai risolti senza affrontare la strutturale espropriazione del lavoro delle donne.
Se la produzione di genere è iscritta dentro dispositivi di dominio che si esercitano a partire dal visuale, quali strategie estetico-discorsive, funzioni creative e linguaggi utilizzano queste artiste per decolonizzare e depatriarcalizzare le rappresentazioni sociali assegnate (a soggettività minoritarie, femministe, queer e postcoloniali) e le tecnologie del genere? Come tracciare, a partire da queste premesse, le connessioni transnazionali che hanno segnato la genealogia dell’ecofemminismo, attraverso l’esperienza di alcune artiste del cosiddetto sud globale, con particolare attenzione all’emersione del fenomeno nel subcontinente indiano? Non è descrivere le «altre» ma raccontare immaginari incatturabili e contro-egemonici.
Note
↩1 | Sheba Chhachhi è nata nel 1958 a Harar in Ethiopia, vive a New Delhi, India |
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↩2 | Tutte le considerazioni sull’ecofemminismo sono state riprese e rielaborate dal saggio A.E. Kings, Intersectionality and the Changing Face of Ecofeminism, in Ethics and the Environment n.22, pp. 63–87, 2017 e nel contesto italiano da Laura Corradi, Terra Madre India. Pensiero e azione dell’Ecofemminismo, in Zapruder, n. 13, 2007, pp. 40-53. |
↩3 | Bina Agarwal, The Gender and the Environment Debate: Lessons from India, in «Feminist Studies 18», no.1, Spring, 1992, p.127. |
↩4 | Arahmaiani Feisal è nata nel 1961 a Bandung, vive a Yogyakarta, Indonesia. |
↩5 | Salima Hashmi è nata nel 1942 a New Delhi, vive a Lahore in Pakistan. |
↩6 | Jessica Lack, Why Are We ‘Artists’? 100 World Art Manifestos, Penguin Modern Classics, 2017, p.363. |
↩7 | Kamla Bhasin e Nighat Said Khan, Some Questions on Feminism and its Relevance in South Asia, Kali for Women, 1986. |
↩8 | Silvia Federici, Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma, 2020, p.55. |
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