Un Focus sui movimenti migranti e il potere costituente dell’immaginazione. Dall’Europa, al Messico, al mondo. Tra arte, critica, filosofia e antropologia.
Regimi di segni ed enunciati di potere
Omaggio al Diagramma Foucault: m i g r a n t i
Quale terribile torsione si è potuta ottenere della parola migranti, declinata sempre ad un plurale informe, bloccata in un enunciato di potere, con le sue strategie operative che fanno tutt’uno con le pratiche securitarie? Si direbbe che sul piano della ricettività foucaultiana – che illumina soltanto ciò che è dato vedere – un blocco di immagini stereotipiche, delle donne e degli uomini in fuga, si incardina sempre più in un regime di segni che produce tutta una funesta iconografia maggioritaria serpeggiante ovunque.
Ebbene, su questo piano luminoso ci è sembrato utile riprendere il diagramma schizzato da Deleuze nel suo saggio su Foucault, non certo per illustrare sterilmente un problema complesso come lo sfruttamento capitalistico dei flussi migratori. Lo si è fatto innanzitutto perché è necessario fare resistenza partendo da se stessi; contro questo incardinamento incessante. Perché persino una certa soglia di colore, una linea che compone una serie di gesti singolari ecc, sono come filtrati, già presi da qualcos’altro che si para davanti. O forse già scava dentro, sin da subito, e non ci si ricorda quando… Ed ecco perché ci troviamo sempre nel mezzo di una battaglia, forza tra forze, profondamente compro/messi-fuori-gioco.
Soltanto a queste condizioni, il diagramma foucaltiano può divenire indispensabile, se fatto funzionare come ri-mappatura immanente delle nostre fragili percezioni. Sì – due volte e nello stesso momento – dritto/rovescio attualizzato di una mappa, tra lo sguardo e la mano che produce, tra l’atto e l’azione, quando abbiamo a cuore lo strazio di chi fugge: l’Altro, che è il noi. Si tratta appunto di resistenza. Perché non è affatto facile liberarsi visivamente della prossimità incerta di che siamo fatti. Anche e soprattutto contro la volontà – che come diceva qualcuno, non è mai buona. Una contro-volontà, dunque.
E allora siamo soltanto all’inizio di un tentativo, molto modesto, di tracciare una delle molteplici cartografie diagrammatiche possibili, partendo dalla selezione di alcuni strati; quelli dove un certo sapere divisivo (e dunque produttore di potere) riceve dalla ricettività della luce percezioni aleturgiche. Infatti, quale dispositivo mette in comune il migrante contemporaneo con la figura del criminale nell’esercizio del controllo dei flussi? Si è potuto vedere che la cattura delle singolarità delle impronte digitali è uno dei fuochi del processo d’archiviazione.
Incipit, l’approccio genealogico: abbiamo un testo. È datato 1892, e sul frontespizio interno ritroviamo una vistosa e minuziosa riproduzione grafica delle impronte digitali dell’autore. Titolo dell’opera: «Finger Prints», di Sir Francis Galton, naturalista, di famiglia quacchera (sui quaccheri, vedi le lezioni di Foucault sulla società punitiva), nipote di Darwin, antesignano dell’eugenetica. In questo volume Galton fornisce una esaustiva ricognizione classificatoria e combinatoria della cosiddetta pattern area delle impronte con le loro diverse singolarità.
Questo studio maniacale lo porterà all’invenzione di un metodo (dattiloscopia), vero e proprio dispositivo impiegato ancora oggi dalla polizia scientifica, in America dall’FBI, e nei centri di identificazione ed espulsione (CIE). Curiosamente, l’immagine grafica dell’archivio diagrammatico foucaultiano sembra ricalcare quella del disegno di Galton; ma quel disegno evidentemente è molto meno di un’illustrazione; cristallizza piuttosto un vettore di ricettività burocratica che ci porta dritti al controllo neoliberale dei flussi migratori.
Ora, su questo primo livello d’archivio – rielaborato in una doppia cattura pittorica – si sovrappone una nera curvatura che costituisce una regolarità in prossimità di zone di singolarità poste su alcuni tasti di una macchina per scrivere. Queste zone sono occupate dalle cosiddette minuzie (terminazioni e/o biforcazioni interne alle impronte, vere e proprie singolarità individuali) che esprimono l’enunciato di potere: m i g r a n t i.
Siamo immersi nell’archivio, dove la piega di soggettivazione è composta unicamente di forze. Ciò che è dato immaginare è appunto questo percorso tortuoso di lettere-impronte che restano invisibili. In basso, le ridge line dei polpastrelli si prolungano nelle striature di carri cigolati che feriscono una porzione di spazio desertico, tra la Turchia e la Siria, colto a volo d’uccello (riappropriazione di catture satellitari del colosso Google). Ma già la piega è orlata della trama di uno dei tanti tappeti Afshar: prodotto artigianale di popoli seminomadi mediorientali, i cui rombi pare simbolizzino la pelle di animale stesa per terra, pronta per essere lavorata.
La piega ha così intercettato una linea di fuga che si estroflette: la diagonale di tratti-segni a-significanti posti in alto, mentre attraversano, senza più spessore, ciò che resta del tappeto, ovvero la sua impronta collettiva.
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