Un Focus sui movimenti migranti e il potere costituente dell’immaginazione. Dall’Europa, al Messico, al mondo. Tra arte, critica, filosofia e antropologia.
Arte e immigrazione
Creare nuova realtà oltre la rappresentazione
Ai Weiwei e i migranti
Si è chiusa il 22 gennaio la retrospettiva fiorentina di Ai Weiwei in cui era illustrata, in circa 3000 metri quadrati del rinascimentale Palazzo Strozzi, la carriera trentennale dell’artista cinese da molti occidentali considerato il simbolo della lotta per la libertà d’espressione nel suo paese. Come già avvenuto per le recenti mostre fiorentine di Jeff Koons (2015) e Jan Fabre (2016), anche nel caso della mostra di Ai Weiwei a far parlare di sé è stata soprattutto l’opera site-specific: i 22 gommoni arancioni che inquadrano le bifore della severa facciata a bugnato della residenza medicea.
I gommoni sono, ovviamente, il simbolo della tragedia dei migranti che approdano sulle coste d’Europa; l’opera, intitolata Reframe, è arcinota per aver sollevato indignate polemiche da parte di molti critici così come del pubblico, che accusano l’artista di aver speculato cinicamente sul dolore e la morte in mare di migliaia di persone. Il tema dell’immigrazione era stato già affrontato da Ai Weiwei nel febbraio del 2016 rivestendo di 14.000 giubbotti di salvataggio le colonne della Konzerthaus di Berlino, intervento preceduto da un suo soggiorno sull’isola di Lesbo, durante il quale aveva raccolto materiale e numerosi autoscatti con migranti.
Ma tentando di fare proprie le implicazioni morali di un’immagine che nella sua assoluta, apocalittica verità è già icona e performance, l’azione dell’artista cinese non riesce a creare scarto, visione, a provocare immedesimazione, ma solo a mimare e replicare
Su una spiaggia dell’isola, l’artista si era poi fatto fotografare da alcuni cronisti del settimanale «India Today» riverso a pancia in sotto, nella stessa posizione in cui fu trovato Aylan Kurdi, il bambino siriano morto su una spiaggia turca il 2 settembre 2015. In questa performance, Ai Weiwei mimava anche con il volto, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, la morte di Aylan: forzando un po’ si potrebbe dire che abbia usato, unico caso nella storia dell’arte che mi venga in mente, un’immagine di cronaca divenuta iconica, anziché un oggetto, come un ready-made. Pronta per l’uso con il suo portato emotivo originario a cui il passaggio attraverso la soggettività dell’artista non aggiunge nulla. Lo scambio di oggetto, la giustapposizione della mole corporea dell’artista all’immagine nota avrebbe l’intento di predicare che il corpo senza vita di Aylan su una spiaggia è il cadavere della nostra coscienza, della nostra civiltà. Ma tentando di raccogliere e fare proprie le implicazioni morali di un’immagine che nella sua assoluta, totale, apocalittica verità e nella sua efficacia è già icona e performance, l’azione dell’artista cinese non riesce a creare scarto, visione, modulazione di intensità, a provocare immedesimazione, ma solo a mimare e replicare.
Un errore di linguaggio
Ai Weiwei, che fin dai tempi dei suoi esordi in Cina alla fine degli anni Settanta dichiara suoi maestri Duchamp e Wahrol, lavora essenzialmente con il ready-made, l’object trouvé, il détournement, gli happening di protesta, la documentazione fotografica dei suoi gesti, e fa di se stesso il centro della sua opera, così recuperando e portando alle estreme conseguenze l’identità tra vita e arte propria delle avanguardie novecentesche: è, questo, linguaggio elettivo di un’arte che programmaticamente si autoproclama «politica» e si sostanzia di tale contenuto. Ma è proprio nell’uso di alcuni dispositivi che s’insinua la crepa che pregiudica la riuscita artistica del lavoro di Ai Weiwei. L’individuazione e l’uso di temi sensibili può far discutere a livello di cronaca, ma da un punto di vista artistico è necessario ragionare sul rapporto tra questi temi, che costituiscono il contenuto dell’opera, il linguaggio e l’efficacia della provocazione, e stabilire quale sia la posizione di questi elementi nella formula messa in atto, la cui somma non rimane invariata invertendo i fattori e, anzi, pericolosamente cambia segno.
Il punto che interessa analizzare, però, è che negli ultimi lavori dedicati al tema dell’immigrazione, l’uso dei dispositivi propri delle avanguardie cui si ispira sono stati interpretati da Ai Weiwei in modo fallace. L’ostentata identità tra opera e vita travalica in uno sterile protagonismo, estremizzando fino all’egocentrismo la valorizzazione dell’esperienza e della personalità dell’artista. Il modo in cui l’artista cinese sostanzia la propria poetica di contenuti politici e sociali da artista engagé, con tutte le considerazioni economiche e sociali che ciò comporta, produce interventi che risultano didascalici e pleonastici. Ai Weiwei si richiama al ready-made duchampiano (in questo caso i gommoni) ma lo lega a un contenuto, fraintendendolo. La sostanza del ready-made è nello spostamento dal campo della realtà a quello dell’arte, e l’arbitrio esercitato in questo modo sulla realtà, sulle sue categorie, e sulla percezione. È dunque privo di contenuto intrinseco, e deve esserlo per funzionare. Il «significato» politico è da ricercare, invece, nell’arbitrio sulla realtà. La prima conseguenza di questa inversione di fattori è che, in questo modo, Ai Weiwei ricaccia l’opera d’arte nel binomio forma-contenuto e dunque nella necessità di essere interpretata e attribuita di significato, depotenziandone la portata e l’autenticità e tradendo una dozzinale esigenza di autogiustificazione dell’arte.
Qual è il valore artistico della semplice testimonianza, in termini provocatori e autoreferenziali, di una tragedia che la richiesta di sospensione del trattato di Schengen da molti stati europei, tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, ha trasformato in una dimostrazione plastica della disumana arbitrarietà del concetto di confine? Quali sensi produce l’interrogativo posto dalla migrazione di decine di migliaia di donne, uomini e bambini, e con loro lo spostamento da un luogo fisico all’altro di un coefficiente umano eterogeneo che nello spostamento subisce una mutazione irreversibile? Temi variamente affrontati, ad esempio, da artisti molto distanti tra loro per tecniche e stile: si pensi a Gian Maria Tosatti nel ciclo del 2016 New Man’s Land, a Oliver Ressler nel video Emergency turned upside-down, a The Francis Effect di Tania Bruguera del 2014. O, ancora, ai due casi di seguito presi in esame: uno, l’inchiesta Tracce liquide nell’ambito del progetto Forensic Oceanography, solo apparentemente estraneo al campo prettamente artistico; l’altro, il progetto dell’irlandese Bryan McCormack intitolato Yesterday-Today-Tomorrow, che dal prossimo maggio sarà tradotto in una installazione in mostra alla Fondazione Cini a San Giorgio Maggiore nell’ambito della Biennale di Venezia 2017.
Sovvertire l’autorità dell’artista, sovvertire il controllo
Quest’ultimo lavoro, partendo dalla constatazione che chi abbandona il proprio paese necessariamente abbandona non soltanto il proprio passato, ma tutta la parte del proprio io che si concepisce e afferma nel presente e quella che si proietta nel futuro, vuole restituire a chi si trova in questo stato di sospensione della parola, dell’io, della progressione dell’io nel tempo, un mezzo di comunicazione e di affermazione «d’esistenza in vita». Si tratta di un progetto ancora in atto, che sta impegnando McCormack in un lungo viaggio a più riprese negli squat e nei campi profughi di Italia, Francia, Inghilterra, Grecia, Turchia e Balcani. In queste visite l’artista ha raccolto finora circa 400 disegni di 150 migranti di quindici nazionalità, di diversa lingua, età, provenienza sociale e grado d’istruzione. Tra questi, molti bambini e ragazzi non accompagnati. Ognuno è stato invitato a disegnare, su tre fogli, una rappresentazione del proprio passato, del proprio presente, e del proprio futuro. Ogni serie di disegni costituisce, insieme alla memoria intangibile dell’artista stesso davanti al quale sono stati realizzate e che può decodificarle conoscendone la storia attraverso il racconto orale, tutto ciò che emerge alla nostra conoscenza dell’individualità di persone per lo più recalcitranti, per paura di essere arrestate e cacciate, a testimoniare la propria presenza in un luogo. Persone costrette a nascondersi, a sparire nello stato di illegalità cui le contraddizioni delle nostre regole di accoglienza le condannano. In questo caso, l’artista si priva completamente del proprio ruolo di autore, di detentore di un qualsivoglia mezzo espressivo, e con questo della patente di artisticità data al lavoro dal suo intervento. Arte non è più la qualità di un oggetto, o la capacità di creazione/ideazione da parte di un soggetto protagonista, ma ascolto, raccolta, ricordo, testimonianza, comune disposizione di tutti al racconto. La possibilità di esprimersi attraverso un linguaggio visivo e di essere recepiti offre nuova appartenenza, un comune in cui affermare la propria esistenza.
Forensic Oceanography, dei ricercatori Charles Heller e Lorenzo Pezzani del Centre for Research Architecture dell’Università di Londra, si occupa di migrazione attraverso la documentazione e l’inchiesta, ma di fatto operando sulla dimensione estetica dei fattori in gioco nel fenomeno della migrazione sulle rotte mediterranee. Il progetto si propone di documentare le violazioni dei diritti dei migranti che avvengono ai confini marittimi dell’Unione Europea con l’uso della strumentazione normalmente impiegata dagli eserciti e dalle agenzie private per il monitoraggio delle rotte migratorie. La materia sfuggente e insondabile del mare, lo stesso mare che ha ucciso molti migranti e che viene monitorato dai satelliti incrociati degli eserciti, è anche una tela su cui si disegnano le tracce dei movimenti che avvengono sulla sua superficie: il mare è una distesa da leggere, che può offrire evidenze da usare per controllare l’operato dei controllori stessi. L’autorità di chi detiene il potere e il diritto di controllare viene spodestata e giudicata grazie ai suoi stessi strumenti.
Heller e Pezzani, in questo modo, hanno prodotto un video intitolato Tracce liquide, in cui viene ricostruito il caso della cosiddetta Left-to-die-boat. Nel marzo 2011, 72 persone che tentavano di raggiungere l’isola di Lampedusa dalla Libia a bordo di una piccola imbarcazione, furono lasciati andare alla deriva per quindici giorni all’interno di un’area marittima sorvegliata dalla NATO nell’ambito delle operazioni militari contro la Libia; nonostante i numerosi segnali inviati dai naufraghi tramite un telefono satellitare e le numerose interazioni avvenute in mare, tra cui quelle con un elicottero e una nave militare non identificati, nessuno intervenne per salvarli, e solo nove di loro sopravvissero. In questo lavoro, con il trasferimento di procedure e metodologie istituzionali dal campo del controllo dei confini internazionali a quello di una lettura alternativa della realtà, l’esercizio artistico consiste nell’operazione di un arbitrio a livello concettuale sugli ambiti e le categorie del reale, con la rimessa in discussione della tradizionale distribuzione dei ruoli, dei rapporti di responsabilità e intervento, degli spazi di azione, degli strumenti di giudizio.
È l’esercizio di uno sguardo disobbediente a quelle tradizionali partizioni del sensibile, descritte da Jacques Rancière, che la gestione da parte del potere costituito impone sui concetti di stato, confine e legalità
È l’esercizio di uno sguardo disobbediente a quelle tradizionali partizioni del sensibile, descritte da Jacques Rancière, che la gestione da parte del potere costituito impone sui concetti di stato, confine e legalità. Nei casi diversi qui presi in esame, Yesterday-Today-Tomorrow e Forensic Oceanography, si tratta quindi di estendere il campo della creazione artistica alla creazione di realtà, decisamente oltre la semplice rappresentazione, il contenuto, il messaggio. Di applicare sulla realtà una simulazione alternativa, altrettanto efficace e incisiva, di nuove «partizioni del sensibile». Una simulazione che non ha nulla dell’utopia, dunque, perché a differenza di questa opera sull’attuale; che crea scarti e riconfigura la divisione funzionale imposta dal potere; che produce, appunto, una nuova realtà attraverso una narrazione che è veramente poietica, dunque artistica e al tempo stesso creativa nel senso che dà luogo a nuovi oggetti.
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