Un Focus sui movimenti migranti e il potere costituente dell’immaginazione. Dall’Europa, al Messico, al mondo. Tra arte, critica, filosofia e antropologia.
La fluidità del sé
Una mostra a cura di Silvia Litardi al Pastificio Cerere
Fluid Journey, la mostra curata da Silvia Litardi alla Fondazione Pastificio Cerere, racconta il rapporto di influenza reciproca che si sviluppa tra una determinata comunità e lo spazio in cui essa vive, mostrando come questo delicato equilibrio possa essere profondamente turbato dall’inserimento di elementi estranei come gli interessi delle società multinazionali. Il tema si declina nel viaggio fluido che intraprende il visitatore nello spazio espositivo come se si trovasse in un mondo virtuale, percezione sicuramente enfatizzata dalla forte predominanza di opere video.
I sei artisti in mostra, provenienti da tre continenti, sono accomunati dallo sguardo straniero con cui osservano la realtà, uno sguardo capace sia di attingere alle rimembranze sopite sia di focalizzarsi su aspetti così contemporanei da sfuggire alla percezione comune. Nella mostra, artista e straniero sfuggono alle definizioni statiche ed esclusive per essere declinati in modi sempre diversi: alcuni artisti lavorano in un contesto altro rispetto al proprio, diventando stranieri loro stessi; altri operano nel proprio contesto ma indagano il rapporto con lo straniero, a volte persone, a volte rappresentanti del capitale globale; altri ancora sono stranieri come le comunità di migranti con cui lavorano in un paese terzo; un’artista crea una connessione tra la propria città e un altrove che incarna alcuni elementi specifici caratterizzanti per entrambe. Il confronto con una serie di esperienze così eterogenee, pone lo spettatore di fronte alla necessità di mettere in discussione i paradigmi con cui è solito definire l’altro da sé.
Fra i lavori in mostra sembra possibile delineare tre macro aree di indagine più specifiche. Un primo corpus di opere mostra le dinamiche del mercato globale in Argentina, Ghana ed Etiopia. Benché geograficamente distanti, essi si trovano ad affrontare i problemi che nascono dall’insediamento dell’economia di mercato di stampo occidentale. Julian D’Angiolillo, a Buenos Aires, ha realizzato Antropolis (2011), un’opera presentata in mostra con gli schizzi preparatori del progetto, un video e delle fotografie di documentazione. Si tratta di un parco a tema alternativo a Tecnopolis, la grande fiera tecnologica voluta dal governo argentino per celebrare il bicentenario dell’indipendenza nazionale. L’artista sfrutta il sistema di autopromozione governativa per evidenziarne le contraddizioni, ponendo l’attenzione sulla logica propagandistica dei grandi eventi internazionali e opponendosi alla gentrificazione con una struttura fatta di materiali di scarto come carcasse di auto, pneumatici, lampioni danneggiati.
Anche le opere di Ibrahim Mahama si relazionano con l’architettura ma gli edifici scelti sono quelli che testimoniano i processi economici post-coloniali in Ghana. L’artista si inserisce all’interno del sistema produttivo attraverso l’appropriazione di alcuni dei suoi oggetti più rappresentativi ormai inutilizzabili sui quali interviene per elevarli al rango di opera d’arte con cui pone l’accento sullo sfruttamento economico del suo paese. Si tratta di sacchi di iuta utilizzati per trasportare materie prime di valore sempre minore man mano che si deteriorano. L’artista li cuce insieme, realizzando enormi strutture tessili con cui ricopre i palazzi simbolo del commercio internazionale. Gli effetti economici e culturali delle infrastrutture realizzate per favorire le grandi compagnie multinazionali sono al centro di Ambaradan (2014), l’opera di Alterazioni Video. Il video si sofferma sulle conseguenze di una modernizzazione che procede a tappe forzate facendo emergere la dicotomia identitaria di cui sono vittime le popolazioni locali, costrette a vivere quasi di nascosto una vita ricca di elementi occidentali ma continuando a mostrarsi tribali ai turisti. In una delle scene più significative, un ragazzo si cosparge il corpo con un pigmento che una volta applicato, lo rende trasparente, mostrando il paesaggio dietro di lui in una chiara allusione agli effetti di questa ibridazione che non si risolve mai in una sintesi di due culture ma ne cancella una, quella locale.
Le opere di Younes Baba-Ali e Maj Hasager possono essere inserite in un secondo gruppo che espone le difficoltà di adattamento e sopravvivenza dei migranti in due città italiane. L’artista marocchino prende spunto dalle politiche migratorie e documenta una performance in cui chiede ad alcuni migranti senegalesi che vivono a Napoli di indossare una divisa con scritto Pulizia e li invita a pulire una stazione. Il logo, mutuato da quello della polizia italiana, problematizza l’azione svolta dalla comunità, invitandoci a interrogarci su chi o cosa sia da pulire. We will meet in the blind spot (2015) di Hasager, racconta invece la vita di una comunità filippina che vive nel quartiere romano dell’Eur, partendo dalla contraddizione del più italiano dei quartieri popolato da stranieri. Progettato negli anni ’40 per incarnare l’ideale architettonico machista e violento di un fascismo che voleva integrare tradizione e slancio verso il futuro, l’Eur ospita adesso persone che, nella maggior parte dei casi, sono venute in Italia per svolgere lavori domestici e di assistenza familiare, prendendosi cura di noi.
Il terzo gruppo di opere, a cui il titolo della mostra sembra essere ispirato, è stato realizzato da Anna Raimondo. Entrambi i lavori si focalizzano sul Mediterraneo inteso come crocevia, un elemento che accomuna popoli distanti. Nell’opera sonora La vie en bleu (2012) si racconta di un ipotetico viaggio subacqueo che si snoda fra Napoli e Marsiglia dove al rumore delle onde e al silenzio sottomarino, si alternano le voci e i rumori prodotti dagli abitanti di quelle che, oltre ad essere città portuali e millenario punto di incontro e scambio di culture diverse, sono considerate degradate e pericolose, forse anche a causa di una spiccata vena sovversiva e ribelle che le contraddistingue.
L’artista sembra immergersi in Italia per riemergere in Francia e tornare indietro, affrontando più volte questo viaggio fluido in cui unisce due comunità geograficamente lontane ma culturalmente simili. Il video Mediterraneo mostra invece un bicchiere nel quale goccia un liquido blu. Il gocciolio è accompagnato dalla voce dell’artista che scandisce ripetutamente una sola parola: Mediterraneo. La voce viene percepita sempre più affaticata via via che il bicchiere si riempie, come se l’artista stesse per annegare, portando lo spettatore a riflettere sulla condizione dei migranti che attraversano il mare.
Fluid Journey non si pone quindi come una mostra che vuole dare risposte ma riunire le domande su cui gli artisti si interrogano riguardo temi attuali e delicati. La sua forza è proprio nella capacità di raccogliere le diverse soggettività di chi racconta, elemento in grado di ridurre la distanza che separa lo spettatore dai popoli lontani, portandolo a confrontarsi con fattori cruciali e strumentalmente rimossi dalle narrazioni occidentali sui fenomeni alla base dei flussi migratori.
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