Eravamo cuori in Atlantide remix
Oggi, 26 gennaio, alle ore 18.00 inaugura la mostra di Andreas Zampella presso la z2o Sara Zanin Gallery (via Baccio Pontelli 16, Roma), in collaborazione con la Galleria Nashira di Milano. L’artista ha deciso di dedicare la mostra a Giovanna Ferrara, amica comune e firma de «il manifesto» oltre che di questa rivista. Giovanna, recentemente e ingiustamente scomparsa, ha coltivato, tra i suoi molti interessi, anche quello dell’arte contemporanea, recensendo mostre, collezionando giovani artisti e promuovendone in generale il talento creando occasioni d’incontro, discussione e scambio. Per questa mostra si è deciso di ripubblicare l’articolo di Giovanna, «Cuori in Atlantide» e di chiedere ad alcuni amici di svilupparne le suggestioni in relazione ad alcune opere di Zampella e al ricordo, che tutti abbiamo, della nostra «amica geniale».
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Eravamo «Cuori in Atlantide». Il nostro tempo era assoluto, erano gli anni in cui moltiplicavamo le visioni di Parmenide, doppiavamo Plutarco, sapevamo il flusso delle stelle e le scie della fisica, ci dividevamo tra la letteratura da programma e quella sperimentale, la politica ci riuniva in assemblea, eravamo arroganti e invincibili come lo sono tutti i corpi desideranti.
Sappiamo tutti, tra il ’92 e il ’96, di aver fatto parte di una anomalia collettiva, che prendeva il patrimonio di una conoscenza passionale e lo rendeva pratica di fecondazione del futuro. Noi di mestiere germogliavamo. In maniera prepotente, sfidando la docilità degli adulti, provocandoli sul terreno delle loro stesse competenze, ingaggiando con i professori più intelligenti infinite partite di senso, imponevamo il nostro vogliamo tutto, a partire dall’impossibile.
E non abbiamo mai trovato la miseria della prudenza. Ci è stato chiesto di sapere di più, di studiare di più senza che questa diventasse attività meritocratica. Il premio era il piacere, come nelle virtuose cittadelle del sole. Perché ad educarci non era solo un corpo docente allenato all’indisciplina del tumulto, era anche la natura. La cornucopia della costiera, gli scogli e il mare. I limoni che si tuffavano sempre un minuto prima di noi. Le porte sempre aperte delle case, il vivere nella bellezza delle strade, l’essere la generazione figlia del Sessantotto, che sentiva le stesse canzoni dei genitori senza rinunciare al sacrosanto conflitto agito per dire «sono io, sono una moltitudine».
Ed è per questo forse che ci hanno chiamato l’onda. Perché insieme travolgevamo e, al contempo, ci travolgevamo, ritrovandoci storditi per la vertiginosa pienezza della vita. Noi che la musica la facevamo nei garage, noi che scrivevamo i testi delle nostre canzoni, noi che eravamo i gruppi musicali, noi che riempivamo la piazza dopo la scuola per rimandare l’ora del pranzo. Noi che quando passavamo eravamo la gioia dell’eternità.
Nel mondo di fuori andiamo con il segreto di quegli anni. Li teniamo nella tasca, se siamo in difficoltà li tocchiamo con le dita del ricordo comune. E senza dirlo riconosciamo i nostri simili. Sono quelli che hanno negli occhi un sogno, quello di un mondo in cui insieme è più importante di me e la conoscenza non serve a prevalere, ma «a prendere posizione». Siamo quelli che avevano ragione.
Bar San Francao, San Francesco, Cava dei Tirreni, Italia, pedinati dalla controra di una qualsiasi estate fitta di polase e indifferenza.
G: Se questa è la cultura di sinistra voglio stare con la lega, Ti giuro
A: HO DIPINTO UN LIMONE
D: che ci prendiamo?
G: Vabbè, non mi prendete sul serio… Se quella è la lotta, preferisco ritirarmi all’Agip, qui non si tratta di competere ma di prendere parola, ascoltatemi e pensateci bene perché qui si gioca tanto della nostra storia…
A: UN LIMONE POSATO AL CENTRO DI UN CUSCINO
D: Mimmo 3 caffe, grazie
G: e poi mi chiedo: ma come cazzo è che non condividete mai un mio pezzo, io seguo il vostro lavoro come una pazza
A: PESANTE CHE SPROFONDA NEL MEZZO DI UN CUSCINO
D: André hai d’accendere?
G: Perché bisogna arrivare veramente ad un punto osceno per accettare quello che significa
A: Te… LA FEDERA DEL CUSCINO FATTA DI FUOCHI D’ARTIFICIO
D: Grazie
G: U uh… ho capito! Vediamo sto quadro, su dov’è?? Da te?
D: Mimmo quant’è?
A: È QUI, SOTTO AL TAVOLO, NELLA BUSTA, L’HO PORTATO QUI PERCHÉ MI HA FATTO PENSARE A TE
D: Scusa gli spiccioli
G: Andreas l’artista che tradisce il suo segreto lasciando un segno!!! Dà ma perché fissi il limone?!?!
A: ?!
D: Andreas promettimi che non sposterai mai, e poi mai, il limone dal centro del cuscino!
«Benché sia difficile da credere, gli anni Sessanta non sono una fiction, sono accaduti davvero» scrive Stephen King sulla quarta di copertina di Hearts in Atlantis, libro ed espressione idiomatica per dire Vietnam. C’è da non crederci che si fumasse in ospedale, si vivesse nelle comuni, si leggessero libri per piacere, si discutesse per passione, si vivesse senza soldi. Irreale fare l’autostop, disertare la chiamata alla guerra, abitare tra più case, guardare negli occhi e non il cellulare. E infatti paiono fantasmi queste storie inseguite dai soprabiti gialli che forse sono legge o forse alieni o forse piccoli Bezos, storie rimosse come l’infanzia che affacciata sulla vita adulta deve apprendere la mostruosità. Solo una fiction può restituire il passato, e non perché lo si debba continuamente inventare ma perché Carol va ben oltre la vita di Bernardine Dohr. E chi è? legittimo chiedersi. È Carol, lei, tu, io, chiunque abbia fatto parte o no dell’esperienza politica più radicale degli stati Uniti: Weather Underground. Non conta niente esserci stati, non vale niente l’averlo vissuto, chissenefrega dell’aneddoto, la biografia soccombe di fronte alla vita degli altri che è sempre anche la propria. E viceversa. La vita di prima sta lì insieme a quella di adesso, questo insegnano i fantasmi. Perché il passato non è un sacchetto da cui ripescare lacci o fiamme, a imprigionare chi si è perso gli anni Ottanta e quelli prima, né l’adesso è il luogo del rimpianto per chi si perderà i prossimi. La storicità è l’effetto del presente mentre all’eco di «vogliamo tutto» ha già risposto Amazon e la marcescenza, come insegnano le micorize, è il luogo dove la metamorfosi si fa per alleanza. Solo la fiction produce storia, quella dove la vita è di tutti e i fantasmi sciolgono i lacci, giocano con le fiamme e ti portano a ballare con chi c’era e con chi non ci sarà.
Quelli che avevano ragione? Avevamo? Abbiamo ragione, noi siamo quelli che una certa ragione ce l’hanno, che sbagliano magari, ma ci provano e poi ci riprovano. Perché non è finita mai. C’eri a Valle Giulia, e nelle strade e nelle piazze di Milano, Bologna e Roma dieci anni dopo, nei cortei degli anni Novanta, tra un bacio e una interrogazione, e a Genova nel 2001? E dopo ancora non sei e non siamo stati l’onda e non siamo rotolati tutti nelle ultime manifestazioni? Non eri sempre tu, non eravamo sempre noi? Non sono le stesse gambe che corrono e scappano? Quanti limoni abbiamo usato? Passameli, facciamo veloci, copriti la bocca e gli occhi. I limoni, i limoni, un gelato al limone, non è questa la felicità? Mettere su le barricate mangiando un gelato al limon, un gelato al limon, gelato al limon! Marciscono? Può darsi, ma guarda bene che s’avanza una moltitudine di limoni sempre nuovi con centinaia e migliaia di gambe che sono le nostre, dei molti noi che salgono le scale di corsa, dei molti noi che entrano nelle aule, che attraversano le piazze e poi si lanciano sulle spiagge, nel sole giallo che è il colore della nostra felicità. Dei molti noi poveri che suonano le trombe d’oro della solarità! E allora oggi non piangiamo più se non di gioia perché tu sei noi e noi siamo te che ti tuffi con una moltitudine di limoni gialli nel mare azzurrissimo che non finisce mai.
Rimaniamo qui, al di qua della siepe leopardiana, indugiamo ancora per pensare l’infinito…
La scena centrale del quadro Il ballo dello studio si svolge al limite di un campo dove lo sguardo si blocca su un’alta cortina vegetale, sipario su un entroterra fantasma che rimane inevitabilmente segreto.
Nella parte sinistra del quadro una scrivania su cavalletti, sopra vi è appoggiato un computer portatile. Quel dispositivo mobile e magico assurto ad archivio mobile delle vite di tutti, per l’artista può sostituire lo studio e andare ovunque insieme a lui, seguirlo come un’ombra. Lo studio non sta più fermo in un luogo preciso, in un punto geografico esatto.
Davvero è così desiderabile questa immaterialità mobile? Movimento e mobilità mica sono sinonimi!
Scrivania + laptop si sciolgono cromaticamente nello sfondo arboreo grigio-verde per lasciare il centro della scena a quattro figure acefale e prive di arti superiori; ballano in cerchio, intorno ad un fuoco invisibile poiché di fuoco sono fatte: guizzano, sgambettano, scoppiettano, vibrano di movimenti coreici, brevi e bruschi frutto del tocco pittorico dell’artista, ancoràno la visione al movimento centrale. In preda ad una frenesia menadica, il circolo di fiammelle metterebbe forse in scena, ardendo senza sosta, la più antica delle cure – la danza – esorcizzando quella «paralisi frenetica» della vita odierna cupamente descritta da Paolo Virno (2021) e dando corpo al desiderio di rigenerare una possibile mobilitazione collettiva difronte allo spegnersi delle coscienze.
È fortissima la tentazione di smascherare gli abbinamenti iconografici di una figurazione surrealista fatta di pochi elementi declinati in tutti i quadri della serie, ma più forte è l’attrazione a lasciarsi risucchiare da quel vortice centripeto, a rientrare nel caos.
Si! Riportiamo al centro l’agire delle moltitudini tramite il corpo e il corpo deve necessariamente danzare, e ardere, non dimenticarlo!
Ballare sopra una poltrona, bruciando come un fuoco. Non è forse questa, la vita? Bruciare di passione e ballare, seguire il ritmo o provare a trovarne un altro da far risuonare insieme ai ritmi degli altri, tutti diversi, tutti singolari e comuni allo stesso tempo, dentro tempi sempre diversi. Di generazione in generazione, ballare senza direttore d’orchestra, trasmettere un ritmo che tutti possono prendere e cambiare e nel frattempo bruciare e continuare a bruciare sempre. Non balla forse il sole bruciando senza interruzione e non balla la terra intorno al sole e non ballano i pianeti e gli astri e le stelle tutte e non gira l’universo intero continuando a bruciare sempre e non balla forse il mare, non gira tutto intorno alla stanza mentre si danza? Se fare politica è trovare il proprio ritmo e imparare a ballare con il ritmo degli altri, sarà per questo che ballavi dentro i nostri telefoni? Lezione di politica numero uno: imparare a ballare! Dalla poltrona di una stanza con una finestra che dà sulle spiagge della Costiera, da Algeri a Capo Nord, dagli Urali a Cascais, tutto brucia! Un mondo è finito e noi ne faremo un altro, generazione dopo generazione. E allora burn baby, burn!…
Partiamo dal principio.
Ed il principio non può che essere un atto puro e nudo. Un sentimento, spesso osceno nella sua potenza. Una danza, un movimento, il principio di tutto e la fine di niente. Genova 2001.
Quel che ne fa l’arte è estrarne dall’ombra la forma esatta. Un’andata e ritorno1 che potrebbe essere anche solo un giro su se stessi.
Non il sentimento, che è immanente all’essere, e nel suo stato primordiale e intimo si manifesta come una forza grezza e sfacciata, ma la sua forma, la sua traduzione in gesto. La determinazione del passaggio dalla potenza all’atto, fino alla sintesi della formula.
Una formula fisiologica che verbalizza il punto nevralgico dell’esistenza e le sue articolazioni attraverso un atto di rivelazione che ci permette di sondare l’abisso viscerale di cui siamo, inevitabilmente, parte. Un nucleo grumoso e denso da liberare attraverso la perpetuazione dell’immagine costantemente messa in discussione. Ciò comporta l’apertura di una voragine, la danza di un esorcismo sul ciglio di un burrone, «il lancio di un oggetto rovente»1 dalle viscere buie di un boccascena.
La messa in crisi di tutto. Non è forse questo che avete sempre fatto?
Eppure.
Eppure quello che è arrivato a noi generazione Y è un tessuto lenticolare, uno spazio fragilissimo. Uno squarcio di lucida cecità nell’anestetica routine delle visioni.
Da questo abbiamo costruito -o almeno ci stiamo provando- uno strumento etico quanto estetico, chirurgico nella sua precisione formale e capace di compromettere al pianto. Un humus essenziale affinché la capacità vibratoria possa realizzarsi e penetrare. Parliamo di un’archeologia biologica del futuro (vostra, nostra, loro?) composta da brandelli di impudicizia e severe soluzioni visive, crudeli e irriverenti, capaci di generare mondi altri, partendo e restando su questo.
Usando il perturbante come scacco alle lande ignote del mondo interiore, abbiamo imparato a sentirci più soli e vedere risplendere, immote e lontane, le stelle, impassibili al dolore umano. Acidi come limoni, con-partecipanti degli orrori e delle gioie collettive, siamo diventati profumi attraverso cui il sentimento osceno, con la sua cruda potenza, si materializza.
Come si osserva un abisso? Forse dall’alto, «galleggiando sul soffitto» come recita una delle frasi che segnano il piano d’azione dello spettacolo Divina Commedia. Purgatorio di Romeo Castellucci.
O forse dall’intero, annodati alle viscere, bagnati nei liquidi, negli umori dell’esistenza, eppure in fiamme, perennemente. Probabilmente solo sporcandosi di vita si può osservare un abisso. Segnandosi il viso con lacrime sciolte e salate, forse un po’ aspre, come mangiando un limone in riva al mare.
È seduto lì, diviso a metà, non sappiamo se a prendere riposo o se in procinto di alzarsi e andare. È il ricordo di un corpo, è solo gambe e piedi. Può muoversi, certo, e camminare: le strade del mondo lo aspettano, aspettano i suoi passi incerti e curiosi, i suoi movimenti ritmici e i suoi inciampi, ma non può sentire e non può guardare, sia perché è privato degli occhi e sia perché è privato del cuore.
È, in sostanza, uno come noi. Uno a cui è stata data la possibilità di raggiungere tutto senza per altro che questo implichi un effettivo spostamento. Uno a cui il mondo si è talmente avvicinato e ristretto attorno da non aver più l’esigenza di toccarlo con le mani, vederlo con gli occhi e percepirlo con l’udito. Soprattutto, è uno che siede da solo e gli altri – ammesso che esistano – lui non li vede o, più probabilmente, non ha bisogno di vederli.
È come noi perché è così che ci si sente oggi stando al mondo. La pluralità, come concetto e come realtà, si è a poco a poco sottratta a favore di una quanto mai disastrosa “autonomia” del singolo. Ognuno è, metaforicamente, seduto su quella poltrona immobilizzato dalla paura e ostacolato dalla troppa cautela. Ognuno è, inconsapevolmente, il peggior concorrente di sé stesso. Ma chi, nella sua condizione, oserebbe affidarsi alla sorte e camminare a tentoni nel buio? Chi, in qualche modo privato del pensiero, potrebbe sapere con certezza, in questo caos statico, cosa volere e come prenderselo?
Eppure c’è un fuoco che brucia di fiamme vive. Eppure le gambe, che ancora esistono a ricordare la propria funzione, potrebbero muoversi. In fondo lo sappiamo che un tempo si è stati interi, che i nostri padri e le nostre madri non ci hanno partoriti inerti né volevano che il nostro mondo diventasse sordo e interamente racchiuso e costretto sugli schermi che abbiamo tra le mani. Il mondo è di fatto ancora sparso, ancora bello, sempre danzante; la vita si svolge ancora fuori dalle case, nei cortili abbandonati, nelle spiagge deserte e nei cieli sfuggenti.
Noi vogliamo ancora tutto ma qualcosa ci ha sconfitti in partenza. E siamo ancora moltitudine, siamo ancora stormo, ancora comunità, pure senza corpo, pure senza politica, pure senza musica. Il fuoco non è spento, il fuoco ancora infiamma e brucia.
Note
↩1 | Per il concetto vedi Gian Maria Tosatti, L’oggetto rovente. Una conversazione con Romeo Castellucci, in “Quaderni d’arte italiana”, Treccani, 2022. |
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